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Oltre diecimila persone hanno riempito oggi le vie del centro di Udine per manifestare il proprio dissenso verso la partita Italia–Israele, prevista nel pomeriggio. Un fiume di persone, giovani, famiglie, studenti, artisti , si è riversato in strada con bandiere, canti e cartelli, in un clima di partecipazione pacifica e determinata.
Nonostante le numerose difficoltà logistiche , tra parcheggi chiusi, treni soppressi e autobus cancellati , la mobilitazione ha superato ogni previsione. In molti hanno raggiunto la città a piedi o organizzandosi con mezzi condivisi, dimostrando che la volontà di esserci era più forte di ogni ostacolo.L’evento è stato catalogato ad un livello di rischio 4, il più alto della scala, riservato alle partite considerate ad “altissimo rischio”. Inoltre  è stata smentita dal Dipartimento della pubblica sicurezza la presenza di agenti del Mossad tra la delegazione che accompagna la Nazionale di Tel Aviv.Sul piano della sicurezza, l’attenzione resta concentrata sulla presenza della nazionale israeliana.
Atterrata ieri a Udine, ogni tragitto della squadra, è stato monitorato con scrupolo.
La destinazione del soggiorno doveva rimanere segreta, ma i segnali portano a un albergo nel cuore della città , dove l’intera zona è stata chiusa, isolata e messa sotto stretta sorveglianza.
Questo pomeriggio, musica, sorrisi, abbracci e colori hanno attraversato la città, trasformando la protesta in una festa di umanità e solidarietà sotto un’unica bandiera: quella della Palestina.
In testa al corteo, la comunità palestinese e i comitati per la Palestina hanno guidato la manifestazione, aprendo un percorso di unità e consapevolezza collettiva.
Dietro di loro, le realtà dello sport popolare, le realtà studentesche e le altre realtà aderenti hanno portato voce, energia e partecipazione.
A seguire, tutti e tutte coloro che hanno sentito forte la responsabilità e l’entusiasmo di esserci: cittadini, giovani, famiglie, persone comuni spinte dal bisogno di non restare in silenzio.
Uno dei momenti più intensi del corteo è stato l’arrivo, in Borgo Stazione, di una grande installazione metallica automatizzata: la Statua della Giustizia bendata, realizzata dall’artigiano udinese Tommaso Pascutti.
La figura, imponente e simbolica, è apparsa come un richiamo visivo e potente al principio che tutti chiedono: giustizia.


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Non una giustizia di parte, ma universale , che travalica appartenenze politiche e religiose. Un valore che appartiene a tutti e tutte, e che oggi più che mai sembra mancare nel panorama internazionale.
Un messaggio chiaro, che parla non solo della Palestina, ma del nostro tempo: senza giustizia, nessuna pace è possibile.
Hamer Hassan, attivista, docente e rappresentante della comunità palestinese in Friuli Venezia Giulia, è stato il primo a prendere la parola, aprendo il momento degli interventi.
Con voce ferma ha ribadito che questa partita non si doveva giocare.
Ha denunciato con forza le ingiustizie, le violenze e i soprusi che il popolo palestinese subisce da decenni, ricordando come gli occupanti abbiano distrutto ogni forma di vita, calpestato ogni diritto internazionale, ogni traccia di umanità.
Tutto questo, ha detto, ha un solo nome: genocidio.Le sue parole hanno attraversato lo spazio attorno a lui come un’onda di verità.I manifestanti hanno risposto con cori e applausi, alcuni con le bandiere alzate, altri con gli occhi lucidi.
In quel momento, la rabbia, il dolore e la speranza si sono fusi in un unico respiro collettivo.
Durante il corteo, anche le parole forti e vibranti di Maya Issa, rappresentante del Movimento Studenti Palestinesi, hanno attraversato la piazza come un grido di verità.
"Oggi è una vergogna — ha detto — una vergogna che si giochi questa partita, una vergogna che si pretenda di usare lo sport come copertura morale per un genocidio in corso".
Con voce ferma e appassionata, Maya ha denunciato la manipolazione del linguaggio e dell’immagine: "Basta con lo sport-washing. Non è accettabile che Israele utilizzi il calcio, la musica, gli eventi internazionali per ripulirsi la faccia mentre continua a bombardare, a occupare, a distruggere vite".


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La giovane attivista ha ricordato le complicità silenziose delle istituzioni internazionali:
"È una vergogna che UEFA e FIFA non prendano posizione. La loro neutralità è una menzogna, perché non esiste neutralità davanti ai crimini di guerra. Restare in silenzio significa stare dalla parte dell’oppressore".Poi, con parole che hanno scosso la folla, ha elencato le ferite che non si possono più ignorare:"Sono oltre 800 gli atleti, giocatori e funzionari sportivi palestinesi uccisi da Israele. Migliaia i giovani mutilati, colpiti intenzionalmente alle gambe: una strategia per spezzare la loro vita e rubare i loro sogni".
E ancora:"Quando si è trattato della Russia, tutti hanno avuto il coraggio di reagire, di sospendere squadre, bandiere, sponsor. Perché allora questa doppia morale?".
Il suo intervento si è concluso con un appello netto, che ha raccolto l’applauso unanime dei presenti:
"Chiediamo l’isolamento di Israele a ogni livello: politico, accademico, diplomatico, economico, sportivo e militare. Non vogliamo vendetta, vogliamo giustizia".
Maya Issa ha dato voce a un sentimento collettivo, a una generazione che non accetta più il silenzio e la complicità.


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"Non può esserci pace senza giustizia. Non può esserci pace senza libertà" ha ribadito, lasciando nella piazza un’eco profondo ed evocativo, come promessa di resistenza e dignità.
Fra l’entusiasmo e la partecipazione sentita dei presenti, il corteo sembrava procedere nel migliore dei modi, fino all’arrivo in piazza Primo Maggio.
Dopo alcuni minuti di sosta, un gruppo di circa un centinaio di dissidenti si è staccato dalla folla, dirigendosi verso le forze dell’ordine con atteggiamento provocatorio.
I giovani del gruppo organizzatore hanno reagito subito, formando dei cordoni umani e cercando in ogni modo di dissuaderli, richiamandoli a comportamenti coerenti con i principi pacifici e rispettosi che avevano guidato l’intera manifestazione.
Per un momento è sembrato che la tensione stesse rientrando, ma in lontananza si è visto un folto gruppo di agenti arretrare improvvisamente, imboccando una via laterale.
Qualcosa stava accadendo dall’altra parte della piazza.
E infatti, proprio quando il corteo pareva ritrovare la sua compostezza, la folla ha ricominciato a spingere e a urlare, scagliando contro la polizia sassi, bottiglie e petardi.
La risposta è stata immediata: dalle grandi camionette sono partite le cariche e gli idranti, ma i manifestanti più accesi non arretravano.
La polizia ha reagito con il lancio di lacrimogeni e colpi di manganello, mentre i dissidenti, dopo brevi arretramenti, tornavano alla carica, in un crescendo di tensione e confusione.
Un giornalista è stato colpito alla testa nel caos degli scontri, mentre cercava di documentare ciò che stava accadendo tra manifestanti e forze dell’ordine.


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Diversi i feriti anche fra i manifestanti, che pero non hanno dato segno di resa.
Gli scontri sono proseguiti per quasi due ore, tra fumo, grida e passi che correvano in ogni direzione.
Alla fine, le forze dell’ordine sono riuscite a disperdere i dissidenti, riportando lentamente la calma.
Quando la polvere si è posata e le sirene si sono spente, tutto era tornato dov’era iniziato: lo stesso punto da cui il corteo aveva preso vita, come se quel cerchio di rabbia e resistenza si fosse chiuso su sé stesso.
Eppure, mentre le voci si affievolivano e restava nell’aria solo l’odore acre del fumo, un pensiero si faceva strada: che cosa significa davvero “pace”? 

La finta pace che è tregua coloniale della grande finanza internazionale

In queste stesse ore, lontano dalle piazze e dalle bandiere, nei palazzi del potere si firma una pace che, più che tale, somiglia a una “tregua coloniale”.
Un accordo che promette ricostruzione, ma sa di conquista.
Al punto 2 del piano proposto da Donald Trump si legge che Gaza sarà ricostruita “a beneficio del popolo palestinese, che ha sofferto più che abbastanza”.
La Striscia verrebbe amministrata da un comitato palestinese tecnocratico e apolitico, incaricato della gestione quotidiana dei servizi pubblici e dei comuni. Tuttavia, il vero controllo spetterebbe a un organismo internazionale di transizione, il Board of Peace (“Consiglio di Pace”), diretto e presieduto dallo stesso Donald J. Trump e dall’ex primo ministro britannico Tony Blair.


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Sì, proprio Tony Blair, l’uomo accusato da molti di essere un criminale di guerra per il suo ruolo nell’invasione dell’Iraq. Il suo Tony Blair Institute (TBI) risulta coinvolto nella pianificazione del progetto GREAT Trust, il cuore economico dell’iniziativa.
Il piano prevede investimenti pubblici e privati tra i 70 e i 100 miliardi di dollari, con rendimenti stimati fino al 400% per gli investitori. Al suo interno figurano dieci mega-progetti, tra cui la “Trump Riviera”, con resort di lusso e isole artificiali in stile Dubai, e una “Elon Musk Smart Manufacturing Zone” al confine con Israele.
Ai punti 10 e 11, il documento propone inoltre l’istituzione di una zona economica speciale a Gaza, con tariffe agevolate per attrarre investimenti stranieri.
Un progetto che, almeno sulla carta, dovrebbe favorire i palestinesi — ma la realtà sembra ben diversa: è difficile immaginare che chi ha perso tutto possa permettersi appartamenti da 75.000 dollari.
Nel testo del GREAT Trust si parla apertamente di Gaza come di un futuro hub manifatturiero con “forza lavoro qualificata (a basso costo)”: un’espressione che lascia intendere che i palestinesi sarebbero trasformati in manodopera economica, più che in protagonisti della ricostruzione. 

La pace non è un affare, è una scelta di coscienza

Come avrebbe detto Giordano Bruno, “non è la forza a rendere liberi, ma la conoscenza e il coraggio di pensare”.
E guardando ciò che è accaduto oggi a Udine, resta una domanda sospesa: che senso ha la violenza cieca, quella che esplode come rabbia contro chi, pur indossando una divisa, non è il vero responsabile del dolore che ci attraversa?
Le forze dell’ordine, spesso intrappolate in un sistema che le vuole esecutrici e non pensanti, finiscono per essere al tempo stesso strumento e vittima del potere che difendono.
Ma sfogarsi contro di loro non cambia le cose: così si rischia solo di riprodurre la stessa logica che si vorrebbe abbattere, e di passare dal torto proprio nel momento in cui si cerca giustizia.
Il comitato per la Palestina, insieme alle tante realtà locali che hanno camminato unite in questi giorni, ha portato avanti un messaggio diverso: un messaggio di coraggio, di verità e di pace.
La loro voce non cerca lo scontro, ma la verità; non invoca la vendetta, ma il risveglio delle coscienze. E in quella voce, forte e composta, risuona ciò che Giordano Bruno avrebbe riconosciuto come il segno più alto dell’essere umano: la libertà di pensare, di scegliere, di restare umani anche quando il mondo sembra dimenticare come si fa.

Foto © Casa Giovani del Sole

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