Il tour diplomatico che sta ridisegnando la geopolitica del Medio Oriente è prossimo a giungere alla fase decisiva. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato che Washington e Teheran si stanno "avvicinando" a un accordo sulla questione nucleare iraniana, dicendosi ottimista sul fatto che gli attacchi militari contro siti strategici del Paese possano essere evitati. "Non creeremo polvere nucleare in Iran", ha detto dal Qatar, seconda tappa dopo Riad del suo tour nel Golfo.
In giornata il tycoon è poi atterrato negli Emirati Arabi Uniti, ovvero l'ultima meta del viaggio diplomatico iniziato martedì. "Mi sto dirigendo negli Emirati Arabi Uniti, che hanno un leader grandioso e meraviglioso", ha dichiarato Trump in una nota prima di arrivare ad Abu Dhabi.
Sulla stessa linea conciliante si è espresso il consigliere della Guida Suprema iraniana, l'Ayatollah Ali Khamenei, Ali Shamkhani che su NBC News ha assicurato che Teheran, in cambio della revoca delle sanzioni, si impegnerebbe a non costruire mai armi nucleari, a sbarazzarsi delle sue scorte di uranio altamente arricchito, ad arricchire l'uranio solo ai livelli minimi necessari per uso civile e a consentire agli ispettori internazionali di controllare l'intero processo.
Alla domanda se l'Iran avrebbe accettato di firmare un accordo oggi, qualora fossero state soddisfatte quelle condizioni, Shamkhani ha risposto: "Sì".
A questo proposito gli Stati Uniti, secondo quanto riferito da un funzionario statunitense ad Axios, avrebbero già consegnato a Teheran una proposta scritta per un accordo, durante il quarto round di colloqui tra i due paesi.
Nel rapporto si specifica che l'inviato speciale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, ha presentato la proposta agli iraniani in Oman domenica.
Attualmente l’Iran sta arricchendo l’uranio al 60%, un livello ben superiore al limite del 3,67% fissato dall’accordo sul nucleare del 2015. Per uso militare, è necessario raggiungere il 90%. In questo contesto, le recenti dichiarazioni di Ali Shamkhani rappresentano la presa di posizione pubblica più esplicita finora espressa dall’entourage della Guida Suprema, sia sulle aspettative dell’Iran sia sulla sua disponibilità a trovare un’intesa.
"Un accordo è ancora possibile. Se gli americani si comportano in linea con quanto affermano, sicuramente potremo instaurare relazioni migliori", ha affermato Shamkhani, aggiungendo che "questo potrebbe aprire la strada a una situazione più favorevole nel prossimo futuro".
Firmata l’intesa del decennio con la Siria dopo anni di guerra per procura
Nella giornata di ieri, Donald Trump aveva conseguito un'altra conquista diplomatica incontrando a Riad il nuovo leader siriano Ahmed al-Sharaa. Un’occasione promosso dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e a cui ha partecipato telefonicamente anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
I sauditi hanno spinto ostinatamente per l'idea di revocare le sanzioni contro la "nuova Siria", mentre il miliardario newyorchese ha avanzato una contro-richiesta: Damasco dovrebbe firmare i cosiddetti "Accordi di Abramo", che implicano la normalizzazione delle relazioni con Israele (il principale alleato degli Stati Uniti nella regione), iniziare la lotta contro l'ISIS e i gruppi alleati, espellere i jihadisti radicali dal paese e prendere il controllo delle attività dei campi per l'addestramento dei militanti.
Mohammed bin Salman
Per Riad la Siria, oltre a un enorme mercato energetico, è anche un trampolino di lancio verso un nuovo futuro tecnologico. Come ricorda il Financial Times, le aziende saudite hanno una forte presenza nel mercato della raffinazione degli Stati Uniti e possiedono azioni in molti grandi impianti di produzione petrolifera.
È proprio sulla questione energetica che è nato il piano per rovesciare la Siria dell’ex presidente a Bashar al Assad. Nel 2011, la Damasco aveva firmato con Iran e Iraq un accordo per un gasdotto strategico che avrebbe collegato il giacimento iraniano di South Pars al Mediterraneo, rendendo il Paese un hub energetico e ponendolo in competizione con il Qatar-Turkey Pipeline, sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Europa. Nel 2009 Assad rifiutò il progetto del Qatar, sostenendo gli interessi del suo alleato russo e anche di fronte alle proteste antigovernative scoppiate 13 anni fa, non accettò le offerte di aiuto economico dai Paesi del Golfo in cambio di un allontanamento dall’Iran. Ma la destabilizzazione del regime siriano sembrava pianificata da anni, come indicato da documenti del Pentagono e dichiarazioni di Wesley Clark, ex comandante NATO, che nel 2007 rivelò piani statunitensi per colpire diversi Paesi tra cui, appunto, Siria e Iran. La CIA, in collaborazione con Turchia, Arabia Saudita e Qatar, sostenne dunque i gruppi armati antigovernativi fornendo armi e addestramento. L’intelligence Usa, in collaborazione con Turchia, Arabia Saudita e Qatar, sostenne dunque i gruppi armati antigovernativi fornendo armi e addestramento. Parallelamente, nel 2013 nacque l’ISIS, finanziato indirettamente da alleati statunitensi come Qatar e Arabia Saudita, secondo documenti del Pentagono e mail di Hillary Clinton rivelate da Wikileaks. Faceva tutto parte di un programma segreto dell’Intelligence USA, pubblicato nel 2013, chiamato Timber Sycamore, finalizzato a finanziare e armare i cosiddetti "ribelli filo-americani".
Ora la strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente trova compendio nel rafforzamento dell’alleanza con l’Arabia Saudita per consolidare la propria influenza nella regione. Washington intende limitare l’espansione della Turchia e contrastare l’influenza persistente dell’Iran che si è già visto rompere il corridoio sciita che arrivava fino al Libano. Un nuovo equilibrio geopolitico funzionale anche agli interessi economici americani: in cambio del sostegno politico e strategico, gli Stati Uniti si aspettano dalla monarchia saudita nuove commesse militari pari a 142 miliardi di dollari, un aumento degli investimenti in titoli del Tesoro, con investimenti fino 600 miliardi e una maggiore collaborazione nella regolazione della produzione petrolifera, utile a stabilizzare i prezzi a livello globale.
Benjamin Netanyahu
L’intesa con gli Houthi che decreta il fallimento dell’approccio militare USA e scarica Netanyahu
Ma il rinnovato approccio trumpiano alla pacificazione del Medio Oriente nasce da una constatazione che le manie di grandezza del tycoon non potranno mai esprimere a parole: il fallimento della storica deterrenza militare USA.
Martedì scorso l’accordo siglato tra il tycoon e gli Houthi è stato sconcertante in questo senso. Il gruppo ribelle ha accettato di smettere di sparare alle navi commerciali nel Mar Rosso, comprese le navi statunitensi, ma non di smettere di attaccare Israele.
L’uso della forza, infatti, non aveva portato a nulla con i ribelli. Gli oltre 1300 raid non hanno scalfito Hansar Allah, mentre Washington, durante i combattimenti, ha perso un consistente numero di droni Reaper e due caccia F/A-18 Super Hornet, spendendo oltre un miliardo di dollari.
Tel Aviv non era stata nemmeno informata sull’intesa, determinando l’irruenta visita a sorpresa del ministro israeliano per gli Affari Strategici Ron Dermer alla Casa Bianca. Una circostanza dove, secondo il quotidiano israeliano Israel Hayom, Trump, su tutte le furie, avrebbe deciso di interrompere i contatti diretti con Netanyahu in quanto la sua convinzione è che stesse “tentando di manipolarlo”. L’accordo ha lasciato Israele a combattere Ansar Allah da solo. Da allora, gli Houthi hanno sparato tre missili balistici contro Tel Aviv, due volte mentre Trump era in Arabia Saudita.
Lo stesso Netanyahu ha dichiarato dinnanzi alla Commissione Esteri e Difesa della Knesset che, a suo avviso, Israele dovrebbe “disintossicarsi dall’assistenza militare statunitense”.
Di fatto, il premier israeliano è stato declassato a scomodo spettatore del tour mediorientale di Trump che ha gestito in modo autonomo il rilascio di un ostaggio americano-israeliano da Gaza, escludendo Netanyahu dalle trattative.
La rottura più significativa riguarda però l’Iran: Trump ha ripreso i contatti diretti sul nucleare, ignorando le posizioni intransigenti del premier israeliano che aspirava ad una guerra diretta con Teheran con il pieno appoggio Usa. Ma l’operazione contro gli Houthi ha dimostrato che si tratterebbe di un conflitto costoso e dagli esiti imprevedibili per Washington.
Netanyahu, da parte sua, non ha risposto alle pressioni americane per una rapida fine della guerra a Gaza, condizione considerata cruciale per rilanciare gli Accordi di Abramo e ottenere l'adesione saudita. Il gelo diplomatico è evidente: mentre Trump visita Doha e Riyadh, non ha in programma alcuna tappa in Israele.
Foto © Imagoeconomica
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