La procura britannica avrebbe ritardato la chiusura del caso lasciando il fondatore di WikiLeaks in un lungo limbo giudiziario
Un altro tassello si unisce al quadro drammatico che riguarda il caso WikiLeaks e il suo fondatore, Julian Assange. Secondo quanto emerso da documenti e indagini, la Crown Prosecution Service (CPS) del Regno Unito - l'organo equivalente alla pubblica accusa - avrebbe svolto un ruolo cruciale nell'impedire che il caso contro Assange venisse risolto in tempi brevi. Al momento dei fatti, alla guida della CPS c’era l’attuale primo ministro britannico, Keir Starmer (in foto). Sotto la sua direzione - ha fatto sapere InsiderOver - la CPS avrebbe suggerito ai magistrati svedesi di non archiviare né far procedere l’inchiesta a carico di Assange, contribuendo a creare un lungo e doloroso limbo giudiziario che ha impedito per anni la chiusura del caso e ha intrappolato Assange a Londra per un decennio, tra la minaccia di estradizione in Svezia per rispondere ad accuse di violenza sessuale - archiviate senza capi d’accusa - e lo stato di rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador, dove ha ottenuto asilo politico. Anche se nello specifico, a destare particolare attenzione sarebbe la cancellazione dell’account email di Paul Close, l’avvocato della CPS incaricato di gestire i contatti con le autorità svedesi. In pratica, sarebbe stato proprio Close a scoraggiare un interrogatorio di Assange a Londra dopo l’emissione del mandato di arresto europeo nel 2010. Una scelta che, di fatto, ha provocato lo stallo del caso Assange. La cancellazione del suo account email, avvenuta nel marzo 2014, subito dopo il suo pensionamento, ha riguardato proprio gli anni cruciali in cui si sono decise le mosse che avrebbero portato Assange a rifugiarsi nell’ambasciata ecuadoriana e a ottenere asilo. I messaggi contenuti in quell’account, ora persi, avrebbero potuto chiarire i retroscena e le responsabilità istituzionali nell’evolversi della situazione. A rendere noto il caso è stata la giornalista investigativa del Fatto Quotidiano, Stefania Maurizi, che da diversi anni conduce una vera e propria battaglia legale per ottenere accesso ai documenti attraverso il Freedom of Information Act (FOIA). Maurizi, che con il suo lavoro investigativo ha messo in evidenza le opacità del governo britannico nella gestione del caso Assange, si è chiesta come sia stato possibile che un’autorità pubblica abbia potuto distruggere la casella email di un suo funzionario che ha avuto un ruolo chiave all’interno di un’indagine ancora in corso, senza nemmeno avviare un’inchiesta interna in grado di chiarirne le dinamiche. Anzi, per oltre sei anni la CPS si è praticamente rifiutata di spiegare chi abbia deciso la cancellazione, con quali motivazioni e in quali circostanze. Solo in seguito a due sentenze giudiziarie, una del 2023 e una del 2025, l’agenzia ha rilasciato alcune informazioni parziali: l’ultimo accesso all’account risale al 31 marzo 2014, ma non è stato possibile stabilire con certezza né il momento preciso della cancellazione, né la responsabilità diretta. La CPS ha attribuito la distruzione dell’account a una “procedura standard” applicata ai dipendenti in pensione. Una versione che per molti non è sembrata particolarmente convincente; anzi, non ha fatto altro che alimentare ulteriori dubbi e perplessità, rafforzando il sospetto che ci sia stata la volontà di insabbiare il tutto.
L’avvocata Estelle Dehon KC, che rappresenta Maurizi, ha spiegato che il modo in cui il caso è stato gestito dalla CPS britannica ha sollevato “ulteriori domande” che richiedono nuove verifiche e una revisione del caso.
Foto © Imagoeconomica
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