
Un’inchiesta sui grandi interessi privati dietro al combustibile che non hanno bandiera
L’algoritmo di Netflix, la guerra in Ucraina, e gli affari delle lobby del gas. Ecco alcuni temi dell’ultima puntata di Report, andata in onda su Rai Tre lunedì scorso.
Ad oggi sono più di 24 milioni gli italiani che si collegano a internet e utilizzano applicazioni on demand, quasi il 50% in più rispetto a un anno fa. La redazione di Report ha scavato sulla piattaforma streaming che opera nella distribuzione di film e serie televisive, tra le quali è stata lanciata anche quella con cui è diventato famoso il comico Volodymyr Zelensky, nominato poi Presidente dell’Ucraina. La società americana pur avendo sedi dislocate in tutto il mondo e fatturando miliardi di dollari ogni anno, nel 2019 ha pagato circa quattro mila euro di tasse. Il servizio è continuato con i corrispondenti a Kharkiv che tra le macerie e i civili rifugiati nelle cantine ha voluto mostrarci l’orrore della guerra.
Affari combustibili
Mentre sopra il territorio ucraino continuano a sparare i carri armati e a piovere bombe, nel sottosuolo il gas russo non ha mai smesso di scorrere. Con le sue inchieste Report ci ha raccontato di come il gas sia lo strumento principale con cui Putin è riuscito a sedurre l’Europa e dei grandi interessi privati che orbitano intorno al combustibile.
“In questo ultimo mese il flusso di gas verso l'Europa non si è interrotto nemmeno per un giorno” ha dichiarato Yuri Vitrenko, amministratore delegato di Naftogaz, la compagnia statale che gestisce il transito del gas nel territorio del Paese, aggiungendo inoltre che “i russi hanno distrutto buona parte delle nostre infrastrutture energetiche strategiche per fare pressioni sul governo ucraino, ma al momento le loro bombe non hanno nemmeno sfiorato le infrastrutture del gas che sono dirette in Europa. Può sembrare strano ma nonostante la guerra stanno rispettando alla lettera i contratti sui flussi di gas che avevano sottoscritto anni fa”.
Da una parte la Russia bombarda l’Ucraina e dall’altra ogni anno versa circa 1 miliardo e mezzo di dollari per far transitare il proprio gas verso l’Europa. Va aggiunto che paradossalmente i russi hanno aumentato i flussi del gas diretti nel territorio europeo pochi giorni prima dell’invasione. Oltre che a fomentare la guerra con l’invio di armi i paesi europei spendono 700 milioni di euro al giorno per ricevere il gas russo. Ne siamo così dipendenti che finanziamo a suon di milioni e milioni di euro al giorno una guerra da cui abbiamo solo da perdere. Dal giorno in cui è iniziata l’invasione russa sono stati pagati circa 36 miliardi di euro, se consideriamo che le stime sui costi della guerra per Putin ammontano a circa 20 miliardi di euro allora le spese per l’esercito risultano più che coperte dal denaro europeo.
Tutti questi soldi vanno a finire nella Gazprombank la banca di Gazprom, la società statale russa che controlla le esportazioni di gas e petrolio. La multinazionale del fossile è nelle mani di Putin, il quale è riuscito a ricondurla sotto la guida del governo con “un patto tra servizi segreti, imprenditori e politici”. Quindi paradossalmente l’Europa con i soldi che versa per il gas finanzia indirettamente la guerra russa, il Cremlino invece mentre sgancia le bombe sull’Ucraina paga le royalties per far fluire il proprio gas verso il vecchio continente, finanziando di fatto la resistenza alla propria invasione. Il numero uno di Naftogaz, dal bunker nel quale attualmente si è nascosto, ha portato l’attenzione sul fatto che “i soldi del gas vengono usati da Putin per comprare armi e uccidere i civili, per questo stiamo provando a convincere in ogni modo l'Europa a rinunciare al gas russo, noi siamo pronti a bloccare subito il transito; è una decisione politica che non spetta a noi ucraini ma all'Europa che però finora sta continuando a dirci che non può rinunciare al gas russo”. La dipendenza del liquido azzurro è tale che i 27 Ministri degli esteri dell’Ue non riescono a raggiungere l’unanimità per abbandonare l’uso del gas russo. Negli ultimi anni circa il 49 % del gas consumato nel nostro continente è arrivato tramite navi gasiere o metanodotti russi, ciò ci dimostra quanto il nostro tessuto economico e produttivo sia strettamente legato alla Russia. Tramite una tariffa di prezzi bassi e un complesso capillare di gasdotti costruiti in tutta l’Europa ai tempi dell’Unione Sovietica, Vladimir Putin è riuscito a ritagliarsi un ruolo di primissimo piano nel mercato e nella scena politica europea. Ogni anno l’Italia importa circa il 40% del gas da Mosca facendolo passare dal gasdotto ucraino “Bratstvo” (fratellanza) che giunge alla rete nazionale tramite i tre metanodotti del Tarvisio. Il nostro Paese senza il gas russo finirebbe in ginocchio, si bloccherebbe l’elettricità, il riscaldamento e di conseguenza l’industria. Non solo, anche nel settore finanziario siamo validi soci in affari delle banche russe. Intesa San Paolo ha istituito un fondo di investimento comune insieme a Gazprombank chiamato Mir, ovvero amicizia, con il quale hanno investito in svariate attività sul suolo italiano, come la cosmetica di lusso e la ristorazione. In tutto Banca Intesa è arrivata ad essere esposta per 5 miliardi di euro in Russia mentre l’Unicredit per 7,5 miliardi. Per districarsi dal legame a doppio filo con Mosca il nostro governo ha intrapreso una caccia ai fornitori alternativi, il primo fra tutti sembra essere l’Algeria che l’anno scorso ci ha fornito il 31% del gas. L’Algeria attraverso il Transmed potrebbe fornirci tra i 2 e i 10 miliardi di metri cubi di gas aggiuntivi all’anno coprendo tra il 10 e il 30% delle importazioni russe. Bisogna però ricordare che il Cremlino, fornendo armi e istruzione ai servizi segreti algerini, è arrivato ad instaurare solide relazioni con l’Algeria che ha deciso di astenersi alla votazione dell’Onu sulla condanna dell’invasione russa in Ucraina. Tra le altre soluzioni nella lista del governo spunta la Libia, dove l’instabilità regna sovrana e lo scoppio di una guerra civile è dietro l’angolo. Poi per aumentare il transito del TAP c’è bisogno del lasciapassare turco in quanto attraversa gran parte dell’Anatolia, eppure la Turchia fino a pochi mesi fa veniva considerata poco democratica.
Sostituire il gas russo è diventata la priorità dell’agenda politica dell’Unione Europea ma i Paesi membri si stanno muovendo in competizione l’uno con l’altro e questo rischia di lasciare qualcuno con il cerino in mano, visto che le opzioni alternative sono sempre le stesse. E per questo gli Stati Uniti spingono per riversare sul continente europeo il loro gas naturale liquefatto con le navi metaniere pronte a salpare gli oceani. Grazie alla rivoluzione energetica dello shale gas Washington è divenuto il primo esportatore di gnl al mondo in poco più di cinque anni, cominciando a vendere il combustibile solo dal 2016, arrivando a superare il Qatar e l’Australia nel 2021. Lo shale gas statunitense viene estratto con una tecnica ad altissimo impatto ambientale, il cosiddetto fracking. Si tratta di sparare nel sottosuolo acqua e additivi chimici per rompere le rocce e liberare il gas naturale. Questa tecnica presenta enormi rischi per l’ambiente e secondo alcuni studi può addirittura causare terremoti. Nonostante sia davvero costoso trasportarlo, difficile da liquefare e estremamente dannoso per l’ambiente grazie al gnl gli Stati Uniti si stanno affermando sul mercato europeo. Joe Biden ha recentemente assicurato 15 miliardi di metri cubi di gnl per quest’anno, promettendone altri 50 per aiutare l’Europa a ridurre la dipendenza dalla Russia. E per aiutare soprattutto le tasche americane che verranno riempite dai prezzi esorbitanti pagati dagli europei. Peccato che le navi metaniere americane non basteranno per coprire i 155 miliardi di metri cubi che l’Ue importa annualmente dalla Russia. Ciò che muove le navi americane oltreoceano non è certo lo spirito umanitario ma è il profitto, infatti lo scorso anno diverse volte gli Usa hanno dirottato improvvisamente la rotta dei carichi destinati all’Europa per dirigerli dove il prezzo era più alto, ovvero verso il loro nemico numero uno, la Cina. Intanto sono anni che ci chiedono di non comprare il gas dalla Russia mentre loro continuano a vendere il gas alla Cina a prezzi elevati. “È un paradosso del mercato e della politica” ha commentato Romano Prodi alle telecamere di Report, aggiungendo che se si “vuole trovare la razionalità completa nel sistema su cui stiamo discutendo è tempo perduto, la frase che ha guidato tutto è quella di Clinton: è l’economia bellezza”. Parole che prendono maggiore significato se pronunciate da un ex banchiere che è stato cresciuto tra le fila degli squali della finanza.
Lobby del gas in Germania
La Germania negli ultimi dieci anni si è prestata facilmente agli interessi delle lobby del gas, per aumentare il proprio peso politico ed economico nella comunità europea. Quando la Commissione europea provava a mediare tra la Russia e l’Ucraina per il conflitto sul gas dei primi anni duemila, Berlino ha voluto approfittare della situazione. “Io dovetti andare a Kiev quando ero presidente della commissione europea due volte a parlare con i ministri perché spillavano il gas” ha dichiarato Prodi sostenendo che “c’erano mille modi per costruire premesse di pace, ma non si voleva; la Germania voleva assolutamente essere lei il quasi monopolista del gas che arrivava dalla Russia”. All’epoca la Russia cercava di raggirare l’Ucraina per trovare uno sbocco alternativo in Europa per il proprio gas e fu così che si arrivò al progetto del NordStream nel 2001, il gasdotto che doveva collegare i giacimenti russi di gas con la Germania attraverso il Mar Baltico. In quegli anni il cancelliere era Gerhard Schröder che alla fine del suo mandato verrà assunto da Gazprom come presidente del consorzio NordStream, il quale verrà completato nel 2011. Il gasdotto nato per indebolire economicamente l’Ucraina approda nel land Mecklenburg-Vorpommern che corrisponde con il collegio elettorale di Angela Merkel. Fino al 2008 l’Ucraina faceva passare l’80% del gas russo diretto verso l’Europa attraverso il proprio suolo, dopo l’apertura del NordStream invece i flussi sono diminuiti fino a raggiungere il 23% nel 2020. Oggi quasi il 31% del gas russo arriva nel territorio europeo attraverso il NordStream. Ma la bulimia da gas ha portato la Germania a costruire un secondo gasdotto con la Russia, proprio nel momento in cui le sanzioni europee si inasprivano dopo i conflitti in Donbass e il referendum in Crimea nel 2014. Viene coinvolto lo stesso land che per sfuggire alle sanzioni crea una fondazione non profit ambientalista, finanziata per l’1% dal governo tedesco e per il 99% da Gazprom. Secondo le stime lo Stato ha sborsato 200.000 mila euro mentre Gazprom ci ha messo 20 milioni di euro. La fondazione, sorta per proteggere la fauna marittima e promuovere corsi di formazione per l’ambiente, ha inserito una clausola burocratica nel proprio statuto che le ha permesso di completare il NordStream2. Sembrerebbe inoltre che per raggiungere l’obiettivo la fondazione abbia acquistato una nave cargo da una cooperativa italiana di Venezia per 11 milioni di euro. Pare che tutti gli sforzi siano stati vani dal momento che il gasdotto non può essere utilizzato per via di un fermo burocratico del governo, arrivato dopo le pressioni degli Usa. La costruzione del gasdotto non aveva niente a che vedere con le necessità economiche o energetiche se consideriamo il fatto che la domanda di gas era in calo da anni in Germania, ma fu una scelta politica. A confermarlo è Claudia Kemfert, consulente delle politiche energetiche del governo federale tedesco: “È costato finora oltre 17 miliardi di euro, una cifra pazzesca, questo significa che saremo costretti a dipendere ancora a lungo dal gas per ripagare l’investimento, ma la verità è che la domanda di gas sta crollando e si ridurrà sempre di più.” La fila dei politici tedeschi pagati profumatamente dalle aziende del gas è abbastanza lunga e Gerard Schroder è solo uno dei tanti casi. Tra coloro che hanno attraversato le porte girevoli troviamo Joschka Fischer, ex Ministro degli esteri che è stato consulente del gasdotto Nabucco; Thomas Bareiß, l’ex Segretario di Stato del ministero dell’energia che ha fatto parte del Cda della potentissima lobby tedesca Zukunft Gas; Marion Scheller, l’ex Capo gabinetto del ministero dell’energia che oggi è a capo dei lobbisti di Gazprom.
Il gas deal europeo
Le politiche europee per fronteggiare l’emergenza climatica sembrano essere derivate dalle grandi lobby azzurre. La Commissione europea definendo il gas come l’energia di transizione per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nel 2050 non ha cambiato quasi nulla rispetto alla situazione precedente. Anche se le emissioni di CO2 del gas sono inferiori a quelle del carbone e del petrolio ciò non toglie il fatto che tra il 30 e il 50% del cambiamento climatico è attribuibile a questo idrocarburo. Pascoe Sabido, ricercatore del Corporate Europe Observatory ha mostrato la potenza di fuoco delle lobby a Bruxelles: “poco tempo fa abbiamo calcolato che tutte insieme arrivano a spendere in attività lobbistica oltre 100 milioni di euro all’anno e dispongono di un esercito di mille lobbisti”. Secondo le analisi di Report le multinazionali del petrolio come Exxon, Shell, British Petroleum, Total ed Eni negli ultimi cinque anni hanno investito circa 90 milioni di euro in attività lobbistiche nelle istituzioni europee per ottenere politiche favorevoli al gas. Dalle dichiarazioni di Pascoe Sabdo è emerso che Eni impiega 1 milione e mezzo di euro per influenzare le politiche europee, ai quali vanno aggiunti però i finanziamenti ad altri 17 gruppi di lobbying che fanno pressione attraverso associazioni di categoria. Gazprom dichiara di spendere 700.000 euro in attività di lobbying all’anno con solo nove dipendenti. Ma sembrerebbe che il gigante del gas russo si avvalga dei suoi partner come Shell, Total ed Eni per portare le proprie richieste alla Commissione europea. Le scelte sulla politica energetica europea degli ultimi anni sono state condizionate dalle aziende del settore del gas, riunite sotto l’apparente organismo tecnico ENTSO G.
“Si presenta formalmente come un organismo tecnico neutrale al servizio della Commissione europea ma in realtà è formato da soggetti che hanno interessi economici diretti nel settore del gas” ha spiegato Bas Eickhout, vicepresidente della Commissione Ambiente del Parlamento europeo, definendo questa organizzazione una “truffa”. Sulla base delle analisi e delle previsioni sovrastimate sui consumi del gas di questo organismo, nel corso degli anni l’Ue ha finanziato progetti per costruire nuovi gasdotti per più di 4 miliardi di euro. Di questi fondi 1,5 miliardi sono stati destinati all’Italia, divisi in 900 milioni alla Snam per il TAP e 500 milioni per il gasdotto al confine con la Svizzera. Ora forse riusciamo a comprendere meglio come mai l’Europa continua a bucare il sottosuolo anche se i consumi di gas sono in calo ormai da anni. Pascoe Sabdo ha voluto chiarire che “la conseguenza di queste previsioni sovrastimate di Enzo G è che abbiamo nuovi gasdotti completamente inutili pagati con i soldi dei cittadini e che potranno dare profitto solo se l'Europa continuerà a dipendere dal gas”. I Paesi europei che sembrano apparentemente avversi a Putin e alla sua guerra finiscono per finanziarla sotto l’assuefazione del gas, scordandosi delle ideologie e delle alleanze a cui hanno aderito.
A chi serve la guerra e l’inflazione?
Il rally del prezzo del gas in Europa è partito da 19 euro al megawattora di gennaio dell’anno scorso per arrivare a toccare i 180 euro al megawattora di dicembre, realizzando un balzo del 847%. Gli eventi climatici estremi che hanno paralizzato i sistemi di produzione energetica, l’aumento drastico della domanda cinese ed una mancata disponibilità in tempi brevi dell’offerta non bastano per giustificare l’assurda impennata dei prezzi a cui abbiamo assistito in quest’ultimo periodo se non consideriamo il fattore speculativo. Secondo Roberto Cingolani non vi è mai stata una carenza di gas effettiva, bensì “dev’essere stata un po’ di speculazione” per giustificare gli incrementi di costo. Tutto è cominciato quando l’Europa ha deciso di abbandonare i contratti di lungo termine deregolamentando il settore, per passare al mercato spot dove il prezzo del gas viene stabilito nella borsa virtuale di Amsterdam con l’indice finanziario TTF. Nel casinò delle borse finanziarie i prezzi cambiano ogni secondo, in base ai rumors, alle voci sui mercati ed alle aspettative. In poche parole abbiamo stracciato i contratti con prezzi stabili per finire in balia della speculazione finanziaria e garantire maggiori possibilità di guadagno ai grandi investitori privati. Per capire chi ci abbia guadagnato di più dall’aumento dei costi di energia bisogna andare a vedere l’elenco degli operatori della borsa di Amsterdam. Ad aprire i festeggiamenti sono stati i tre intermediari internazionali di materie prime, in cui l’olandese Vitol è passato da 140 miliardi di dollari di entrate nel 2020 ai 279 miliardi del 2021 portando a casa un aumento del 99%. Seguono Trafigura, corporation con sede a Singapore che dai 147 miliardi di dollari è arrivata ad incassare 231 miliardi lo scorso anno con un balzo del 57%, e l’inglese Glencore che dai 142 miliardi di dollari è passata ai 207 miliardi. Oltre ai traders del gas in queste borse operano anche le grandi società finanziarie di Wall Street e analizzando i bilanci di quest’ultime si scopre che anche loro hanno partecipato alle danze. JP Morgan Chase ha raggiunto 48.3 miliardi di dollari in profitti nel 2021 registrando una crescita del 60% rispetto all’anno precedente, decidendo di premiare il proprio Ceo, Jamie Dimon, con uno stipendio di 34,5 milioni di dollari. Goldman Sachs nello stesso anno ha incassato un utile netto di 21,2 miliardi di dollari, più del doppio rispetto a quello precedente, versando lo stipendio record di 35 milioni di dollari al proprio numero uno David Solomon. Morgan Stanley registrando un utile netto di 15 miliardi di dollari, in rialzo del 37% rispetto all’anno precedente, ha deciso di destinare 35 milioni al vertice della compagnia James Gorman. Mentre il popolo viene chiamato a pagare i costi delle scommesse sulle materie prime e viene mandato al massacro in guerra anche le industrie belliche sorridono. I titoli in borsa delle americane Northrop e Grumman e Lockheed Martin sono saliti di oltre il 30% in un mese. La Leonardo ha visto raddoppiare i propri guadagni così come il colosso tedesco Rheinmetall insieme a Hensoldt e Thales, mentre il rialzo dell’inglese BAE Systems si è limitato al 30% circa.
La Commissione europea ha stimato i megaprofitti delle aziende del settore in circa 200 miliardi di euro invitando a tassarli per calmierare le bollette, ma nessun Paese europeo ha preso l’iniziativa lasciando combattere per la sopravvivenza i cittadini e le imprese.
L’Eni la partecipata che non partecipa
Nel frattempo che i prezzi del gas salivano alle stelle, nell’ultimo trimestre del 2021 Eni intascava 2,1 miliardi di euro. Lo scorso anno la multinazionale italiana ha guadagnato 4,7 miliardi di euro in profitti segnando il miglior risultato dal 2012, dopo che nel 2020 aveva chiuso con una perdita di circa 750 milioni di euro. Eni ha deciso di reinvestire gli extraprofitti, ottenuti con l’aumento dei prezzi dell’energia, nell’acquisto di azioni proprie per 1,1 miliardi di euro.
“È un modo se vogliamo più indiretto di beneficiare agli azionisti perché con l'acquisto di azioni proprie Eni va sul mercato compra le azioni per 1,1 miliardi di euro, e comprandole fa salire il prezzo a quel punto l'azionista una volta che è salito il prezzo può decidere di vendere le azioni intascando il differenziale” ha commentato Mauro Meggiolaro, analista finanziario della Fondazione Finanza Etica. Il cane a sei zampe sembra ubbidire agli azionisti con i quali è più propenso a partecipare nonostante il 30% delle azioni sia in mano allo Stato. I dividendi finiscono anche nei conti pubblici però gran parte di questi finisce nelle mani dei privati che controllano il 70% dell’azionariato. A beneficiarne sono soprattutto i tre maggiori fondi di investimento americani tra cui Blackrock, che si è portato a casa 116 milioni di euro in dividendi, Vanguard con 108 milioni e la Massachusetts Financial Services con 53 milioni. Tra gli italiani vi è Mediolanum, partecipata dalla famiglia Berlusconi, che si è aggiudicata 19 milioni di euro di dividendi.
Eni ha potuto registrare lauti guadagni grazie ai contratti a lungo termine stipulati con la Russia negli anni passati, che le permettono di pagare il gas ad un prezzo più basso rispetto a quello della borsa di Amsterdam. Gli italiani pagano un prezzo del gas più alto rispetto a quello con cui la società lo acquista. E nonostante sia un’impresa partecipata dallo Stato i contratti stipulati con Gazprom rimangono segreti.
Dopo la crisi delle forniture del gas in Italia scaturita dalle tensioni tra Russia e Ucraina nei primi anni duemila, l’Eni aveva deciso di cercare un accordo diretto con il Cremlino. L’accordo arriva nel 2006 quando il Viceministro dell’energia e Presidente di Gazprom, Alexey Miller e l’ex amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, hanno firmato un contratto per prorogare l’erogazione del gas russo all’Italia fino al 2035. I prezzi stabiliti dai due giganti dell’energia rimangono tutt’oggi un segreto politico. Mario Reali, ex responsabile Eni in Russia non era d’accordo sulle condizioni di quel contratto, sostenendo che Gazprom si era garantita il monopolio sulle esportazioni di gas decidendo a chi e come venderlo. Per cercare di capire meglio la questione le telecamere di Report sono giunte fino in Kazakistan dove sorge uno dei giacimenti di risorse energetiche più grandi al mondo, il campo Karachaganak che si estende per 30 km. Qui Eni è presente insieme ad alcune delle maggiori società fossili del pianeta come l’inglese British Gas, l’americana Chevron e la russa Lukoil. Inglesi, russi, americani ed italiani estraggono gas tramite un consorzio internazionale per poi svenderlo ad una società kazaka che a sua volta lo passerà ai russi. La corporation in questione si chiama Kaz Munay Gas e il suo portavoce sbilanciandosi ha affermato che il prezzo di acquisto dal consorzio è di 14 dollari per mille metri cubi di gas. Anche se si tratta di un gas inquinato dall’acido solforico che deve essere rielaborato è comunque un ventesimo del prezzo applicato da Gazprom nel mercato europeo. L’Eni quindi estrae il gas ma lo cede ad un’altra società che a sua volta lo passa a Gazprom che infine ce lo vende a noi. Ma perché Eni non fa arrivare il gas direttamente nel vecchio continente applicando un prezzo molto più conveniente? Si potrebbe far passare il gas da Baku per poi redistribuirlo nei gasdotti diretti verso il territorio europeo senza passare dalla Russia. Non sarebbe una scelta errata considerando che il giacimento kazako potrebbe coprire il 15% del fabbisogno italiano.
I popoli vengono sempre più affamati e bombardati, mentre le ricchezze degli oligarchi russi sfuggono alle sanzioni occidentali grazie al sistema di servizi legali e finanziari offshore offerti da Cipro. A rivelarlo è un importante manager di Evraz, il conglomerato minerario russo che fattura circa 13 miliardi di dollari all’anno e dove troviamo Roman Abramovič, il patron del Chelsea, Alexander Frolov ed Alexander Abramov. L’arma di persuasione di massa in mano a Putin si chiama Gazprom, il cui portavoce ha dichiarato che le risorse minerarie russe sono inesauribili. Sopra scorre il sangue dei civili e sotto i potenti del mondo festeggiano gli incassi inebriandosi nei fiumi di gas.