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Riportiamo integralmente qui di seguito un articolo pubblicato su RT e scritto dal collega Luis Gonzalo Segura. Nell'articolo viene descritto uno spaccato nudo e crudo del mondo dei grandi marchi di abbigliamento. Sfruttamento, schiavitù e condizioni disumane sono gli "ingredienti" principali per la produzione dei capi firmati tanto amati dalla "società civile".

Zara, Nike o H&M: le pratiche schiaviste dei big tessili occidentali e come occultano lo sfruttamento
Niente si salva dall'avidità dell’Occidente. A seconda dell'epoca e dai differenti interessi esistenti, gli occidentali si sono impadroniti di tutto quanto hanno desiderato per secoli. E non è stato poco: oro, argento, petrolio, risorse naturali, tesori archeologici o esseri umani sono stati strappati dalle loro radici per lucro e beneficio del mondo Occidentale. Una spoliazione che ancora oggi continua sotto forma di sfruttamento lavorativo.  Uno dei molti esempi su questa pratica che condanna milioni di persone a vivere in condizioni disumane lo troviamo nello sfruttamento lavorativo imposto dalle grandi multinazionali dell’abbigliamento, quelle che ci vestono. Una forma di schiavitù che non vede soluzione né tantomeno volontà di emendamento.  

L'ultima infamia, in India
Negli ultimi giorni, il Worker Rights Consortium (WRC), con sede centrale a Washington D.C., ha rivelato che le grandi multinazionali occidentali contrattano fornitori a Karnataka, stato del sudovest dell'India, che non rispettano le condizioni lavorative minime che i lavoratori dovrebbero avere per poter vivere con una certa dignità. Alcune di queste aziende sono Nike, Zara, H&M, Puma, Tesco, C&A, Gap o Marks&Spencer. In totale, oltre 400.000 lavoratori dell’abbigliamento sarebbero sotto pagati, al di sotto del minimo sindacale stabilito dallo stato indiano, dall’aprile del 2020. È stato allora che i fabbricanti tessili si sono rifiutati di aumentare di 417 rupie mensili, circa 4,92 euro, il salario dei lavoratori e pertanto il salario di circa mezzo milione di persone è rimasto sotto il minimo stabilito. Secondo la normativa questi lavoratori dovrebbero percepire almeno 8.500 rupie aggiuntive di stipendio -equivalenti a circa 100 euro -, che supporrebbe un totale di spesa di 48 milioni di euro. Questa situazione avrebbe portato molte famiglie, già di per sé disagiate, a ridurre ancora di più i loro standard della loro alimentazione, costretti a evitare le verdure e ricorrere solo a riso con salsa. Un inferno - interminabili giornate di lavoro per un piatto di riso - che dura già da circa due anni e che presenta diabolici parallelismi, con quanto accaduto nel periodo più buio del secolo XX.  

La mancanza di volontà delle grandi multinazionali 
Questa situazione, inoltre, dimostra la mancanza di volontà delle grandi imprese occidentali di migliorare le condizioni lavorative dei lavoratori delle fabbriche, nelle quali vengono confezionati i capi di abbigliamento che usiamo giornalmente. Non si tratta di un episodio arrivato a conoscenza dei media a seguito di un'investigazione giornalistica, il caso è arrivato perfino ai tribunali indiani, dove le imprese contattate dalle grandi multinazionali sono state condannate a pagare le somme dovute dal Tribunale Superiore di Karnataka. Alle grandi imprese l’unica cosa che realmente importa è ricavare grandi benefici, e lo sfruttamento di lavoratori viene considerato rilevante quando ha degli effetti sui bilanci contabili. Tuttavia, le imprese, sempre reticenti a migliorare le condizioni lavorative, continuano a fare causa per ritardare il più possibile il pagamento dei salari arretrati senza che ciò rappresenti un qualche problema con le grandi multinazionali occidentali, alle quali interessa soltanto il prezzo, la qualità e la data di consegna. Altrimenti, dopo venti mesi di confronti tra lavoratori ed imprese, sarebbero intervenuti costringendo al pagamento delle somme dovute ai lavoratori. Basta segnalare che il salario minimo del menzionato stato indio, Karnataka, secondo informazioni già rese pubbliche, non arriva ai 50 euro al mese - il salario minimo stabilito per tutto il paese ad agosto del 2019 è di 2,6 euro al giorno, ma in alcuni stati è inferiore -. Condizioni che di per sé dovrebbero essere già considerate inammissibili dalle grandi imprese occidentali, anche quando ricevessero il salario minimo che non arriva a 50 euro, e che in realtà è dieci volte sotto il salario medio indiano che supera i 400 euro mensili, e tra 30 e 50 volte sotto i salari medi in USA o Europa.  

Zara, H&M o Nike si sottraggono alle loro responsabilità
Di fronte alle informazioni ormai pubbliche, i rappresentanti dei grandi marchi affermano che hanno messo in chiaro ai loro fornitori che devono pagare il giusto salario minimo previsto dalla legge. Ad esempio, la marca spagnola Inditex, proprietaria di Zara, ha affermato che “ha uno stretto codice di condotta che esige che tutte le fabbriche della nostra catena di fornitori paghino salari minimi legali”, motivo per il quale “stiamo contrattando alcuni fornitori nella regione che facciamo pressione affinché paghino il salario minimo". Inoltre, "i salari devono essere sempre sufficienti per soddisfare almeno le necessità basilari dei lavoratori e delle loro famiglie”. 

Aziende dirette da persone senza scrupoli
Ma la realtà è che le grandi aziende hanno un unico interesse, ottenere grandi benefici, poiché lo sfruttamento di lavoratori diventa rilevante per loro solo quando incide sui bilanci, cioè quando si ripercuote sulle vendite in modo negativo. Non è un caso che, nella maggioranza dei casi, i dirigenti di queste grandi multinazionali siano personaggi senza nessun tipo di scrupoli. Un esempio di ciò è lo spagnolo Amancio Ortega, uno degli uomini più ricchi del mondo, secondo la classifica Forbes, e che recentemente si è visto coinvolto in due grandi scandali. Il primo quando a giugno è emerso che era titolare di due conti in Lussemburgo stimati 1.300 milioni di euro; e, il secondo, più recente, quando si è saputo che avrebbe acquistato un yacht attraverso imprese costituite a Malta nel 2008 per risparmiare 25 milioni di euro. Scandali che, purtroppo, vengono tenuti nascosti dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione che fanno la loro parte nelle grandi campagne mediatiche per promuovere un'immagine filantropica sia di Amancio Ortega che della maggior parte delle persone più ricche del mondo. Informano la cittadinanza di investimenti in azioni filantropiche di una piccolissima parte di quello che dovrebbero pagare di tasse. Benché sia un aspetto comunque da segnalare, la questione principale non gravita attorno a singole persone, bensì a tutta una civiltà, l'occidentale, che ha insita in sé una visione imperialista del pianeta e della storia per la quale si arroga la proprietà di tutto quanto esiste nel mondo, persone comprese. Ecco perché le grandi multinazionali sopracitate sono state protagonisti di innumerevoli scandali. Uno degli ultimi, che vede di nuovo Zara, H&M o Nike coinvolte, lo troviamo nella deforestazione dell’Amazzonia, come denunciato da Greenpeace. Aziende che, insieme a molte altre - un centinaio – sono coinvolte nella distruzione dell’Amazzonia attraverso la multinazionale brasiliana JBS, produttore di carni bovine. La questione principale orbita attorno a tutta una civiltà, quella occidentale, che ha insita in sé una visione dominante del pianeta e della storia per la quale si arroga la proprietà di tutto quanto esiste nel mondo, persone comprese. Ma come dicevo, l'elenco è interminabile. Ad esempio, nel 2016, fornitori di Zara e di altre grandi imprese hanno consentito in Turchia un contratto di lavoro   illegale a rifugiati della guerra di Siria, alcuni di loro minori di età, i quali venivano sottoposti a giornate di lavoro interminabili, per poco più di un euro l'ora. Al riguardo Zara affermò che “si stava rimediando”, in riferimento alla situazione di sfruttamento di questi lavoratori, ma quel che è certo è che, cinque anni dopo, ci scontriamo con la stessa problematica. Uno sfruttamento lavorativo che non ha cessato nel Magreb - Zara sfruttava i marocchini per 65 ore settimanali per 178 euro nel 2012 -, Asia - Zara pagava 1,3 euro l'ora per 68 ore settimanali in India nel 2016 - o America Latina, dove gli scandali non sono di minor rilievo né pochi. Nell'anno 2013, la filiale di Zara in Argentina fu denunciata dall'ONG ‘La Alameda’ per sfruttamento lavorativo in tre laboratori a Buenos Aires, nei quali lavoravano perfino minori ed immigranti boliviani. Lo stesso modello riscontrato qualche anno prima in Brasile, dove nel 2011 la filiale di Inditex pagò una multa di 1,4 milioni di euro per sfruttamento lavorativo. Lo stesso modello che anni dopo, nel 2017, quando la Procura argentina imputò ad un'impresa affine all’Inditex per il regime di schiavitù al quale aveva sottomesso un lavoratore - diciassette ore giornaliere - per la riforma di un locale di Zara a Buenos Aires. 

L'ipocrisia dei grandi marchi occidentali
Come sempre, l’Occidente scrive belle parole mentre flagella con una buona frusta: viene redatto l'Accordo di Bangladesh o la legge francese del dovere di diligenza per le imprese, ma non si preoccupa che sia rispettato. Promuove perfino campagne nei mezzi di comunicazione per ripulire la propria immagine mentre continuano a schiavizzare milioni di persone in tutto il pianeta. Il gran esempio di questo tipo di iniziative è ACT (Azione, Collaborazione, Trasformazione). Molte delle imprese indicate fanno parte di questa iniziativa, apparentemente rivoluzionaria, perché avrebbe come fine il miglioramento reale delle condizioni di vita dei lavoratori delle grandi imprese, mediante il potenziamento di sindacati. Questa proposta fu presentata ai ministri del lavoro del G-20 nell'estate del 2017, più di quattro anni fa, benché, come vediamo, ha servito di molto poco, tranne che a far brillare orgogliose molti grandi marchi mondiali per le loro buone azioni nelle loro pagine web, come è il caso della spagnola Inditex che si vanta di far parte di questa iniziativa. La vera intenzione delle grandi multinazionali, compresa Inditex di Amancio Ortega, così come nei secoli passati fu proibita la schiavitù sulla carta senza che avesse effetto sulla realtà, dista molto dalla salute ed il benessere dei lavoratori delle sue fabbriche.  Questo tipo di azioni normalmente sono convenientemente promosse dai mezzi di comunicazione subordinati. Una dimostrazione di ciò la troviamo nella rivista 'XL Semanal' del quotidiano spagnolo 'ABC' che a novembre del 2018 affermò al riguardo dell'iniziativa ACT che “è in corso un cambiamento generazionale tra i proprietari delle compagnie di moda. Giganti come C&A, H&M, Tchibo o Zara sono, in maggiore o minor misura, imprese di proprietà familiare. I figli o nipoti dei fondatori vogliono cambiare le cose”. Tuttavia, mentre l'obiettivo fondamentale dell'iniziativa ACT si basa sul potenziamento dei sindacati, la realtà si presenta molto differente. Così, da una parte, la citata pubblicazione affermava che "una nuova generazione di dirigenti tessili sta cambiando la rotta al commercio. Si denominano se stessi 'la terza generazione'. A differenza dei loro predecessori non vogliono occultare o minimizzare gli abusi, aspirano ad introdurre cambiamenti profondi. Invece di ricorrere a controlli esterni, la loro intenzione è rafforzare il ruolo dei lavoratori e dei sindacati nelle proprie fabbriche. In fin dei conti, loro sono i primi a sapere se le sarte sono obbligate a lavorare di domenica, se non vengono retribuiti gli straordinari o se soffrono abusi sessuali”.  Ma, a giugno del 2020, in piena pandemia, lavoratori delle fabbriche di Zara in Myanmar hanno scritto una lettera ad Amancio Ortega nella quale denunciavano che da anni confezionano gli indumenti di Zara senza che si preoccupassero della salute, sicurezza e benessere dei lavoratori. E non solo, denunciavano anche, e questa è la cosa più importante, la repressione da parte dei rappresentanti sindacali, inclusi i licenziamenti, e le difficoltà che vivevano i lavoratori che pretendevano di denunciare le condizioni lavorative nelle quali si trovavano. Una lettera che, di nuovo, evidenzia ancora una volta che la vera intenzione delle grandi multinazionali, compresa Inditex di Amancio Ortega, come quando nei secoli passati fu proibita la schiavitù sulla carta senza un reale effetto nella realtà, dista molto dalla salute e dal benessere dei lavoratori delle sue fabbriche.   

Fonte:
actualidad.rt.com

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