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Le guerre come strumento per depredare le risorse delle nazioni cosiddette ‘povere’ o ‘sottosviluppate’

Esistono nel mondo vari paesi cosiddetti poveri che vengono mantenuti tali affinché altri stati e imprese multinazionali possano sfruttare le loro risorse. Come nel caso dell’Africa, una terra ricchissima di risorse naturali, dove però la popolazione viene tagliata fuori dai benefici economici derivanti dall’estrazione e dalla vendita di quest’ultime. Addirittura, i conflitti che sussistono in determinate aree hanno il solo fine di mantenere lo status quo di sfruttamento delle risorse e di sottomissione delle popolazioni autoctone.
Il nostro stile di vita occidentale è il frutto di un sistema economico squilibrato. Da un lato c’è una grandissima quantità di ricchezza alla portata di pochi paesi benestanti e dall’altro lato invece, milioni di poveri sfruttati per il loro lavoro e depredati delle loro terre. “In Myanmar, in Vietnam, in vari paesi vengono fatti i nostri vestiti bellissimi di marca, Benetton, Piazza Italia” ha ricordato Padre Alex, “in uno paese asiatico, ho visto il rapporto, dove le donne ricevono 30 dollari al mese, 1 dollaro al giorno. Come facciamo a comprare quei capi di vestiario? ma basta boicottarli!”. “Ma devono diventare azioni collettive, deve essere un popolo che dice basta, e si può fare tutto questo”. Anche Marco Mascia, Direttore del Centro Diritti Umani Antonio Papisca ha sottolineato come “questa leadership globale sta impoverendo il mondo con un sistema neoliberista, che è altrettanto criminale quanto le guerre combattute sul campo. Questa leadership globale vuole mantenere il controllo sulle materie prime e le ricchezze naturali presenti nei paesi poveri" e per depredare tali risorse del pianeta “viola costantemente il diritto internazionale, compiendo crimini di guerra e crimini contro l'umanità”.

Le mani di mezzo mondo sulle ricchezze del Congo: un conflitto senza fine
Prendendo in considerazione il Centro Africa, Elena Pasquini, giornalista e attivista nella Repubblica democratica del Congo, ha parlato di questa terra dopo essersi recata nel febbraio scorso a nord del Congo e nella zona in cui è avvenuto l’attentato all’ambasciatore italiano Luca Attanasio. Le sue parole di sconcerto hanno mostrato un quadro desolante. Un paese che da decenni non vede tregua né pace, martoriato da scontri tra le molte fazioni armate sul territorio, anche con la presenza di gruppi islamisti.
Una situazione completamente instabile che crea il terreno fertile per una strategia del caos, volta allo sfruttamento degli immensi bacini di materie prime di questi territori. Le conseguenze di ciò sono violenze e brutalità nei confronti della popolazione civile, scontri che sfociano in uccisioni di massa, stupri e massacri. I villaggi vengono bruciati e la crisi alimentare si fa ogni giorno più incalzante, la corruzione dilaga permettendo così uno spietato traffico di armi e minerali, materiali che rappresentano sempre di più la condanna a morte dei congolesi. Centinaia di morti e migliaia di sfollati che hanno dovuto lasciare la loro casa fuggendo con pochissimo o nulla.

La Repubblica Democratica del Congo (RDC) è un paese scosso da perenni conflitti etnici e regionali. Per ben due volte questi conflitti sono degenerati in guerre multistati, come la prima guerra del Congo (1996-1997) e la seconda guerra del Congo (1998-2003). La seconda è stata definita ‘guerra mondiale africana’ o ‘grande guerra africana’ e ha visto contrapporsi Ruanda, Uganda e Burundi da un lato e un’ampia coalizione a sostegno del presidente Kabila dall’altro, composta da Angola, Ciad, Sudan, Repubblica Centrafricana, Zimbabwe, Namibia e Libia. Oltre alle nazioni africane erano coinvolti anche circa 25 gruppi armati. Questa guerra ha avuto un enorme strascico: 5,4 milioni di morti per guerra, fame e malattie.
Per tentare di riportare la pace è stata avviata una missione, tutt’ora attiva, di Caschi Blu dell’ONU composta da 18 mila soldati. La più grande al mondo.  La zona più a rischio di conflitto in Congo è quella orientale, siccome alcuni dei giacimenti più grandi al mondo di rame, cobalto, zinco, alluminio, diamanti e oro si trovano proprio qui e a questi si aggiungono legname pregiato, uranio, stagno, tungsteno, petrolio e gas naturale. La Repubblica Democratica del Congo è infatti uno dei maggiori produttori mondiali di diamanti, cobalto, rame e coltan (all’interno del quale si trova il tantalio), i cosiddetti ‘minerali insanguinati’ perché estratti in zone di conflitto. Le ragioni etniche dei conflitti in Congo, che non a caso si concentrano proprio nell’est del paese, mascherano l’interesse per il dominio di queste risorse redditizie. Molti di questi sono minerali indispensabili per l’industria elettronica, cioè per i nostri PC, i nostri smartphone e le auto elettriche. I nostri cellulari, ad esempio, contengono tra i 5 e i 10 grammi di cobalto e le batterie di un auto elettrica ne contengono tra i 10 e i 15 chili. La RDC produce circa il 70% del cobalto mondiale. La Cina detiene praticamente il monopolio della lavorazione del minerale. Tra le varie compagnie di estrazione del cobalto in Congo in testa ci sono la multinazionale svizzera Glencore e la multinazionale cinese China Molybdenum, come riportato da Il Sole 24 Ore.

Oltre alle industrie estrattive esistono anche una marea di miniere artigianali, che si attestano intorno al 20% del totale, secondo un rapporto disponibile su ResearchGate. L’estrazione artigianale avviene senza sistemi di sicurezza e tutele per i minatori, tra cui anche molti minori. Le stime parlano di 40.000 minori impiegati come minatori per più di 12 ore al giorno, in condizioni fisiche e mentali usuranti. Le miniere dove avviene l’estrazione artigianale sono gestite prevalentemente da gruppi armati locali.

Nel Dicembre 2019 è iniziato un processo dove sono state chiamate in causa aziende come Apple, Alphabet (l’azienda madre di Google), Dell, Microsoft e Tesla, come spiega LIFEGATE. Alle aziende viene mossa l’accusa di essersi approvvigionate di cobalto da fornitori che si avvalgono di lavoro minorile nel processo estrattivo. I fornitori finiti sotto i riflettori sarebbero la Kamoto Copper Company (una joint venture di cui la svizzera Glencore è proprietaria al 75% e di cui sempre la Glencore è l’unico cliente acquistandone il 100% della produzione mineraria) e la cinese Zhejiang Huayou Cobalt.

La Congo Dongfang Mining International (una filiale al 100% di proprietà della Zhejiang Huayou Cobalt) è stata accusata da un rapporto di Amnesty International del 2016 di acquistare soprattutto cobalto di estrazione artigianale e rivenderlo poi all’azienda madre cinese Huayou Cobalt, uno dei leader mondiali nella produzione di cobalto. Sempre nel rapporto troviamo le aziende che acquistavano le batterie finite da produttori che avrebbero usufruito del cobalto estratto dalla Congo Dongfang e dalla Huayou Cobalt: Apple, Samsung, ATL, BYD, LG, Mercedes, Daimler, Sony, Volkswagen, Dell, HP, Huawei, Lenovo, Inventec, Microsoft, Vodafone, Ahong, OKWAP, ZTE, LG.

Oltre al Cobalto, anche il Coltan (contenente Tantalio) è molto richiesto, siccome viene usato anche esso per le batterie e proprio per questo è soggetto a simili filiere estrattive e produttive.

I gruppi armati locali estraggono, tassano illegalmente e saccheggiano le miniere. Gli introiti di questo mercato nero servono ad autofinanziarsi. Le immense risorse sono la piaga della società civile congolese che paga le conseguenze di questo sfruttamento con omicidi, sparizioni, torture, distruzione di proprietà pubbliche e private, violenza sessuale e di genere, sfruttamento del lavoro minorile e reclutamento di bambini-soldato, come ha rivelato uno studio sulla violazione dei diritti umani nella RDC pubblicato nel 2018 dal Dipartimento di Stato americano.

l’Unione Europea aveva approvato nel 2017 un regolamento che impediva l’importazione nell’Unione di cassiterite (da cui si ottiene lo stagno), wolframite (tungsteno), coltan (tantalio) e oro provenienti da zone di conflitto. Alla lista manca però il cobalto di cui si è parlato sopra e altri minerali ‘insanguinati’. Il 1 gennaio 2021 il regolamento è entrato in vigore, vincolando le imprese che importano minerali alla due diligence (dovere di diligenza), ovvero al dovere di accertarsi dell’origine dei minerali utilizzati. Tuttavia i prodotti finiti non sono soggetti alla normativa europea, aggirando così l’obiettivo del controllo sulla filiera di approvvigionamento.

I metodi per aggirare tale sistema di controllo non finiscono qui.  

Bande armate, organizzazioni criminali e personaggi legati alle élite politiche locali che controllano oltre il 70% delle miniere artigianali del Congo orientale. Il 90% della produzione di oro, ad esempio, viene contrabbandata fuori dal paese, secondo la Repubblica, e gli Emirati Arabi Uniti “importano il 95% della produzione (di oro artigianale dell’Africa orientale e centrale, ndr) e richiedono una documentazione minima. Dal Dubai Gold Souk, il principale mercato, l’oro parte per India, Cina, Svizzera e Medio Oriente, in quello che è essenzialmente un processo di riciclaggio.”

Nella maggior parte dei casi – dice la rivista online L’Eurispes.it, canale informativo dell’istituto di ricerca Eurispes – si perde traccia del materiale estratto in Congo che viene poi contrabbandato al di fuori del paese. L’oro verrebbe così portato nei paesi confinanti (Uganda e Ruanda) e venduto ad aziende del posto che lo raffinano, per essere poi esportato come oro di provenienza ugandese o ruandese. Così etichettato il minerale non subisce accurati controlli, poiché i due paesi non sono a rischio conflitto. Un'altra via, sempre secondo la rivista, è quella diretta verso Dubai all’interno di bagagli a mano caricati su voli privati. L’oro qui verrebbe poi raffinato e tranquillamente smerciato a livello internazionale con falsi certificati di provenienza. “Gli Emirati Arabi Uniti, in generale, e la città di Dubai in particolare, stanno ricoprendo un ruolo sempre più centrale nell’immissione sui mercati internazionali di oro proveniente da zone di conflitto” afferma L’Eurispes.it.

Altro tema scottante sono i diamanti, presenti in grandi quantità nella RDC, uno dei maggiori produttori mondiali. Dal 2000, multinazionali e paesi produttori e compratori seguono le linee del Kimberley Process (KPCS), un accordo di certificazione dei diamanti volto a garantire che le pietre estratte non provengano da zone di conflitto. Il problema del Kimberley Process è che non tiene conto del rispetto dei diritti umani, come il divieto del lavoro minorile, pratiche di lavoro eque e l’impatto ambientale. Oltre al fatto che diamanti grezzi estratti in zone di conflitto posso essere contrabbandati tranquillamente in zone prive di conflitto dove poi una volta tagliati otterranno al certificazione Kimberley.

Il Congo è disseminato di miniere artigianali, anche di Diamanti. Mbuji-Mayi viene definita la ‘città dei diamanti’. Qui ci sono le miniere che producono un terzo dei diamanti ad uso industriale di tutto il mondo. In un intervista al salesiano don Mario Perez attivo nella RDC, pubblicata da Popoli e Missione, il missionario racconta di come la vita nei pressi delle miniere di diamanti sia infernale per intere famiglie, “nella nostra missione arrivano spesso bambini malnutriti e affamati che scappano dalle miniere di diamanti dove sono trattati come schiavi. I bambini della nostra scuola hanno tutti un parente che lavora in miniera, anche fratellini più grandi. E ci raccontano che muoiono spesso sepolti vivi in quelle gallerie pericolanti e insicure. […] I diamanti sfuggono ai controlli perché vengono esportati grezzi in Rwanda e Burundi, ripuliti, e da lì finiscono in India e in Cina. […] Mbuji-Mayi è una città della provincia del Kasai Orientale, che un tempo dipendeva completamente dai diamanti. C’era una società parastatale a partecipazione belga e tutti vivevano dei proventi delle sue gemme. Ma negli anni Ottanta, Mobutu ha messo fine al monopolio statale e si è creato un mercato libero. Tutti si sono buttati sul commercio dei diamanti e le miniere sono finite sotto il controllo dei gruppi armati”.

Il governo della RDC ha recentemente firmato un protocollo d'intesa con la multinazionale russa Alrosa per lo sfruttamento di un giacimento di diamanti, come riportato da la Repubblica, ma gli attivisti di Lucha, un importante movimento per i diritti nel paese africano, sono preoccupati perché “Alrosa è co-responsabile di un disastro ambientale avvenuto proprio all'inizio del mese (settembre 2021, ndr): un'azienda per l'estrazione e la lavorazione dei diamanti nella vicina Angola, di cui il marchio russo detiene il 41% delle quote, ha sversato metalli pesanti in un affluente minore del fiume Kasai. A causa dell'incidente 12 cittadini congolesi hanno perso la vita e altri 4.500 sono rimaste intossicate.” Inoltre “Alrosa avrebbe – dice il quotidiano parlando della denuncia di Lucha – dato prova di non rispettare gli standard sulla sicurezza delle aziende”.

In un paese da decenni dilaniato da scontri tra gruppi armati ed esercito regolare, viene da chiedersi da dove arrivino tutte le armi usate nella RDC? In un rapporto del 2012 di Amnesty International si denunciava “le gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle forze regolari (le Fardc, ndr) e dai gruppi armati della Repubblica Democratica del Congo, favorite dalla facilità con cui armi e munizioni possono essere reperite”. Solo un trattato sul commercio delle armi, diceva il rapporto, può limitare la circolazione senza controllo degli armamenti. “Tra i principali fornitori, figurano Cina, Egitto, Francia, Stati Uniti d’America, Sudafrica e Ucraina. Nella maggior parte dei casi, i trasferimenti sono stati autorizzati nonostante il concreto rischio di crimini di guerra e di violazioni dei diritti umani” continuava il rapporto. Questi paesi venderebbero alle forze regolari congolesi che però non riescono a proteggere i loro arsenali e le armi finirebbero nelle mani dei numerosi gruppi armati, e a volte sono addirittura gli stessi militari regolari che le rivenderebbero ai miliziani. Oppure le armi vengono fornite ai governi dei paesi confinanti che poi li rivenderebbero ai gruppi armati congolesi in cambio dei minerali pregiati.

I giacimenti di gas in Mozambico: la maledizione della popolazione di Capo Delgado
Il Mozambico è stato colonia portoghese fino al 1975, anno in cui il movimento armato indipendentista  Fronte per la liberazione del Mozambico (FRELIMO) divenne unico partito di governo. A causa dell’estrema povertà in cui versava la popolazione, il paese si alleò politicamente all’Unione Sovietica chiedendo supporto ai paesi del blocco comunista. Dopo l'indipendenza, il Mozambico divenne un punto di riferimento per i movimenti indipendentisti e anti-apartheid del Sudafrica e della Rhodesia. Questi, con il supporto degli Stati Uniti, finanziarono la costituzione in Mozambico di un esercito di liberazione anti-comunista detto RENAMO. All’inizio degli anni ottanta, il RENAMO iniziò una serie di attacchi contro le infrastrutture del paese, anche scuole e ospedali, portando il Mozambico ad una guerra civile che, tra il 1981 e il 1992 provocò circa un milione di morti, di cui il 95% furono vittime civili. Nel 1990 con la fine della guerra fredda e dell'apartheid in Sudafrica venne meno l’appoggio a RENAMO, tanto che FRELIMO e RENAMO iniziarono a negoziare.

L’ intervento della giornalista Paola Rolletta, con vent’anni di lavoro in Mozambico alle spalle, ha posto l’attenzione su questo paese dopo la firma per la pace a Roma nel 1992 che ha posto fine a 16 anni di guerra civile. Nonostante le ottime iniziative della società civile, da  cinque anni a questa parte si è aperto un nuovo conflitto a Capo Delgado, provincia nel Nord del Mozambico, contro un nemico non meglio identificato. A seguito del primo attacco nel 2017 ad una piccola cittadina ai confini con la Tanzania, alcune voci individuano questo nemico in giovani invasati ed emarginati, come riportato dal vescovo di Pemba, Luiz Fernando Lisboa, che le condizioni di estrema povertà e le enormi disparità sociali porterebbero a reazioni violente di questo tipo. Il motivo sarebbe la produzione di gas che dal 2010, quando furono scoperti i giacimenti, ha fatto diventare il paese il terzo maggiore produttore di gas al mondo. L’interesse per un settore che, con la presenza dell’italiana Eni e della francese Total, sta attraendo grossi investimenti e conseguentemente genera un sempre maggiore divario tra ricchezza e povertà. Investimenti da milioni di euro in netto contrasto con la situazione sociale ed economica del paese, dove le persone hanno poco o niente da mangiare, gli ospedali e la sanità sono inesistenti e l’istruzione è carente a cause delle poche scuole. Molti sono stati costretti ad abbandonare i propri villaggi sulla costa a causa delle operazioni industriali e le cose sono peggiorate quando nella zona è sorta una guerriglia di stampo islamista.

La giornalista Rolletta parlando dello scenario attuale ha detto: “Siamo arrivati al 2021 alla battaglia di Palma […] la battaglia di Palma è fondamentale, stiamo parlando del 1 Aprile 2021”. Per la giornalista questa battaglia è fondamentale in quanto il governo del Mozambico non si affida più ai mercenari russi dell’azienda Wagner e al proprio esercito “poco preparato, fragile e mal pagato”, bensì ingaggia i mercenari della compagnia sudafricana Dyck Advisory Group (Dag) che hanno combattuto quella parte di “guerra sporca” durante la guerra civile. Infatti, la Dag è accusata di aver sparato indiscriminatamente sui civili e di aver attaccato un ospedale, come denuncia un rapporto pubblicato da Amnesty International.
Solo in seguito all’attacco dei Jihadisti alla base della Total però, il governo del Mozambico ha deciso finalmente di chiedere aiuto alla comunità internazionale tramite un accordo trilaterale firmato da Mozambico, Francia e Ruanda. Una triangolazione che lascia perplessi, ma che potrebbe spingere per un’azione decisiva nei confronti di un conflitto che dura ormai da cinque anni e che fino ad adesso ha provocato oltre 3.000 morti stimati e più di 100 mila rifugiati e sfollati interni al paese. In quest’ultimo la violenza dilaga, l’economia locale è devastata e la regione totalmente militarizzata. Da una parte le compagnie petrolifere chiedono maggior protezione militare da parte del governo mozambicano, dall’altra la militarizzazione della zona, con contractor, esercito e gruppi armati, ha portato violenza e caos a danno degli abitanti della regione.
La rivista Altra Economia fornisce un’analisi più approfondita del progetto Coral South per l’estrazione del gas in Mozambico: il progetto vede prestiti da parte di Unicredit e di Ubi Banca (Unione di Banche Italiane S.p.A.), l’Eni è una delle maggiori compagnie che guidano le operazioni per lo sfruttamento dei giacimenti di gas, mentre Sace (società finanziaria specializzata nell’assicurazione al credito per l’export, di proprietà della Cassa depositi e prestiti, quindi controllata dal Ministero dell’Economia italiano) fa da garante per gli investimenti del colosso dell’energia.
“La maledizione dell’Africa è la sua ricchezza, per favore, non è povera, è ricchissima”, ha detto padre Zanotelli alla conferenza, questo è il motivo per cui ci sono tante guerre e povertà nel continente nero. “E ricordo a tutti voi, per favore, che il ministro degli esteri non è Luigi di Maio, ma è Descalzi, è l’Eni, sono questi che fanno la vera politica. Questo è il cuore del problema”. Infatti è palese l’azione cinica dei nostri colossi dell’energia (Eni), del credito (Unicredit, Ubi Banca) e dei governi (Sace), che vanno a investire in Mozambico per accaparrarsi il gas, ma non investono nel miglioramento di vita della popolazione autoctona, anzi lo stesso progetto infrastrutturale genera ancora più povertà e violenza.

La Birmania tra investimenti cinesi e interessi indiani
Situata tra Cina, India, Bangladesh, Thailandia e il Golfo del Bengala si trova la Birmania o Repubblica dell'Unione del Myanmar. Da pochi mesi il paese è stato scosso al suo interno da una guerra civile dovuta all’instaurazione del regime militare. Un territorio che, essendo al centro dell’area asiatica, è divenuto zona contesa tra gli interessi indiani e quelli cinesi. Come ha spiegato la Segretaria Generale dell’associazione Italia-Birmania.Insieme, Cecilia Brighi, “la Cina ha una serie di interessi fortissimi in Birmania […] porta attraverso la Birmania il gas e le merci che sta depredando in Africa, attraverso lo stretto di Malacca, risparmiando 5 o 6 giorni di viaggio ed evitando il passaggio nella situazione di conflitto nel Mar Cinese del Sud”. Questo non è il suo unico interesse, oggi la Cina detiene infatti svariati progetti strutturali, progetti idroelettrici, minerari e mega progetti industriali. Ma il legame tra i due territori è molto più profondo, in quanto vede la Cina, insieme alla Russia, come il più grande fornitore di armi in Birmania, bloccando al Consiglio di Sicurezza qualsiasi risoluzione obbligatoria che preveda la riduzione di armi. Parlando dell’altro contendente di questo territorio, Cecilia Brighi ha illustrato che “la stessa India ha una serie di interessi, sempre nel Rakhine, stiamo parlando di uno degli stati dove c’è stato questo grande crimine nei confronti dei Rohingya, stanno costruendo questa grande infrastruttura che permette di far arrivare parte dell’India, che non ha accesso al mare, al mare”. Come si intuisce dalla situazione geopolitica che ha spiegato Brighi, c’è uno scontro tra Cina e India per il dominio di questo pezzo di Asia che vede i militari birmani interessati ad appoggiare la presenza cinese in quanto Pechino si è impegnata in rapporti sia politici che economici.

A seguito del colpo di stato da parte dei militari per riprendere il potere, la situazione è precipitata drasticamente. A risentirne maggiormente, con incendi di villaggi e chiese, sono state il vasto numero di etnie presenti nel territorio (circa 130 riconosciute). Cecilia Brighi ha riportato alcuni dati che mostrano lo spaventoso scenario in cui è avvolto il paese “ad oggi ci sono state 1100 persone uccise,  8800 arrestate, soprattutto le donne vengono arrestate spesso quando si cercano i mariti  e si sequestrano le donne come metodo di ricatto. […] Ci sono da febbraio a oggi oltre 230.000 rifugiati interni. Si dice che metà della popolazione sia sull’orlo della fame. Una serie di licenziamenti di massa, licenziamenti usati come ricatto. Sono stati licenziati impiegati pubblici, medici, infermieri, lavoratori dell’energia che hanno boicottato la fornitura di gas e di metano. I ferrovieri sono stati cacciati pure dalle case”. Questo è il gravissimo scenario che emerge dai dati internazionali. Ma i pochi risvolti positivi si stanno vedendo principalmente nel sistema tessile dell’abbigliamento, dove l’associazione Italia-Birmania.Insieme sta cercando di far uscire dal paese 250.000 lavoratrici che “preferirebbero morire di fame che consolidare questa dittatura”, tanto che Benetton e altri marchi, anche se non tutti, hanno dichiarato che non lavoreranno più in Birmania.

Dopo anni di governo militare, il Myanmar aveva finalmente visto degli spiragli di apertura democratica prima nel 2012 e poi nel 2015 quando furono indette libere elezioni per ricoprire il 75% dei seggi in parlamento. Il restante 25% rimaneva in mano ai militari. Vinse con maggioranza assoluta la Lega Nazionale per la Democrazia del leader e Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi.
Il nuovo colpo di stato di febbraio 2021 ha tappato le ali alla nascente democrazia birmana e sta soffocando la società civile contraria alla leadership dittatoriale militare.

Questi descritti sono solo alcuni conflitti nel mondo e il numero delle vittime è già altissimo. Ma, se facessimo un conto totale di tutte le vittime di tutti i conflitti del mondo potremo dire di trovarci di fronte ad un’ecatombe. Il nostro mondo è un cimitero a cielo aperto. I paesi benestanti, le democrazie occidentali danno grande peso alla vita, ma al contempo questi stessi paesi invece di aiutare i paesi in difficoltà, sfruttano le loro risorse, vendono loro le armi e fomentano le guerre, al punto che la vita in tali luoghi non ha più alcun valore: questo è il paradosso in cui viviamo. 

Padre Zanotelli ha spiegato che le armi sono lo strumento con cui “il 10% del mondo” ruba e sfrutta le risorse al sud del mondo per mantenere il suo stile di vita, quello nostro occidentale cioè, in un circolo vizioso dove “l’uomo è diventato la più feroce bestia che esista su questo pianeta”. E ancora, ha aggiunto: "Viviamo in un mondo assurdo … ma è mai possibile che l'anno scorso, dati SIPRI di Stoccolma, abbiamo speso 1.981 miliardi di dollari in armi, è follia totale. Un paesino come l’Italia ha speso 27 miliardi di euro in armi. […] E negli ultimi 10 anni i vari governi italiani hanno tolto alla sanità pubblica 37 miliardi di euro: ecco la follia collettiva”.

Due gli obiettivi da raggiungere con la marcia per la pace secondo il missionario: “Dobbiamo forzare il governo italiano a firmare il trattato di abrogazione delle armi nucleari, è fondamentale”, perché “l’anno prossimo arriveranno in Italia le bombe atomiche B61-12 (molto più precise e potenti, ndr) che rimpiazzeranno la settantina di bombe atomiche che abbiamo in Italia”. Il secondo punto invece riguarda l’impegno contro le armi che si può attuare tramite “la campagna banche armate” (www.banchearmate.org). “Togliere i nostri soldi da quelle banche che pagano per le armi, e per favore, sapete quali sono, ve lo dice il parlamento italiano che è obbligato per legge a dirle ogni anno, le due principali: Unicredit e Deutsche Bank”.
Bisogna essere consapevoli che “è con i nostri soldi che tutto questo avviene, togliamoci l’innocenza, è inutile che andiamo a fare la carità li, se non ci impegniamo a cambiare davvero le cose” ha concluso padre Alex andando dritto al punto.

Fine

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