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Condannato nel recente processo Condor in Italia, ma ancora impunito

Era denominato “El Burro” per il modo brutale con cui interrogava le persone detenute alla sua mercé. Soprannome che in realtà, ci permetto di dire, è un insulto all'animale, perché il comportamento della natura, di quella specie, è ben lontano dal provocare le violenze che invece provoca la specie umana, che si ritiene di far parte di una "umanità" civilizzata, ma che invece sta precipitando, già da tanto, in un precipizio indescrivibile, dove le violenze e le brutalità sono ormai la quotidianità al servizio della criminalità nel vero senso della parola.

Quella criminalità che fa paura - e suscita ripugnanza -, come appunto quella esercitata dai militari uruguaiani (e del Río de la Plata) durante la dittatura e che è legata visceralmente all'impunità, sia ieri che oggi, e ormai cosa naturale nelle democrazie a metà, quando si tratta di responsabili di delitti di violazioni di Diritti Umani. "El Burro" è il colonello in pensione (dell'esercito uruguaiano), Pedro Antonio Mato Narbondo, il cui stato di "uomo libero" in territorio brasiliano, di fatto mentre scrivo queste righe, è qualcosa che colpisce agli occhi e alla giustizia, essendo stato condannato recentemente all’ergastolo in un mediatico processo svoltosi in Italia, contro i repressori del Piano Condor. 

La stampa mondiale e regionale, recentemente, hanno dato notizia del processo a suo carico in Italia, ma il colonello Mato Narbondo si trova nella sua abitazione, nella frontiera uruguaiana, nella città Santana do Livramento, per una ragione molto semplice: essendo cittadino brasiliano la legge non permette la sua estradizione. 

Coinvolto in sequestri, torture ed omicidi per motivi di netto taglio politico, in Uruguay -faceva parte dall'operativo Condor-, questo militare in pensione è uno dei 14 repressori condannati in Italia, nell’ambito di un processo seguito attentamente dalla stampa locale e del mondo intero, date le gravi connotazioni dell’operativo (che coinvolgeva diversi paesi), elaborato e messo in atto dalle dittature sudamericane, al servizio degli interessi statunitensi. Come si ricorderà, il processo ha avuto luogo in Italia perché molte delle vittime avevano cittadinanza italiana, e Narbondo è uno degli 11 militari di nazionalità uruguaiana, condannato all’ergastolo, agli inizi dello scorso mese di Luglio. 

Ma "El Burro" è libero come il vento, in Brasile, ormai vicino agli 80 anni - a settembre - (il suo aspetto non è quello della foto di copertina, pubblicata dalla stampa uruguaiana nel 2014), e vive tranquillamente in un quartiere di classe media (proprio a due chilometri di una linea immaginaria che separa il Brasile dall’Uruguay, nel centro della città), dove ha avuto la sfacciataggine - parlando con i giornalisti di Matinal Jornalismo, del Brasile - di dire senza rimorso alcuno: “Io ero un militare, seguivo ordini e vivevamo in un'era di guerriglie nei paesi. I Tupamaros in Uruguay, Var Palmares in Brasile, la stessa cosa in Argentina, Cile... perciò qualsiasi cosa io dica in mia difesa, come militare, non servirà a niente. È nell'ambito politico dove bisogna risolvere questi temi. Fu un periodo che è ormai passato”.

Non c'è foto sua di questa intervista, perché ha negato fermamente di essere ripreso graficamente; non c'è un mea culpa sulla manodopera che offrì ai politici contro i quali adesso punta il dito e che chiama in causa perché secondo lui sono loro a dover risolvere queste questioni. È palese che lui non si sente minimamente tormentato, non ha avuto neppure la minima volontà di presentarsi alle autorità quando fu chiamato a deporre in Uruguay, prima del processo in Italia, perché ritenuto colpevole di tortura e morte di un lavoratore nel 1972. Nonostante sia stato emesso un ordine di cattura internazionale a sua carico, da parte delle autorità uruguaiane, oggi "El Burro" risulta latitante. L’ordine di cattura si sfaldò non appena il militare si recò in un ufficio per avere la nazionalità brasiliana di sua madre, cosa che gli ha permesso di tutelarsi in base all'articolo 5 della Costituzione del Brasile che garantisce che non può essere estradato per rispondere per reati commessi fuori dal territorio brasiliano. 

La cultura dell'impunità che circonda personaggi come "EL BURRO" è patetica, ma reale e tangibile. Non permette fare un passo in avanti ad alcun operatore della giustizia affinché venga applicata la legge. Agli impuniti di sempre i reati commessi non sembrano disturbarne il sonno o routine. Poco importa che escano alla luce pubblica i loro curriculum; prova vera - ed orrenda - della più assoluta malignità ideologica di quei giorni. 

Poco importerà a Mato Narbondo, sentendosi protetto, che l’elenco di accuse venga diffuso e fatto conoscere ancora una volta dappertutto: è stato condannato in Italia per aver partecipato alla morte e sparizione di quattro cittadini di quel paese: Bernardo Arnone, Gerardo Gatti, Juan Pablo Recagno Ibarburu e María Emilia Islas Gatti de Zaffaroni. Tutti loro arrestati a Buenos Aires e portati al centro clandestino "Automotores Orletti". Lo hanno testimoniato i sopravvissuti che lo incrociavano in mezzo alle torture ed ai colpi all’interno dell’officina, rimasta emblema dell'orrore che soffrirono centinaia e centinaia di persone di differenti età e nazionalità, e che era conosciuta tra i repressori, come "Il Giardino", una crudele ironia per chi soffriva sul posto ogni tipo di tormento, per poi essere trasportati negli aeroplani della morte ed essere lanciati ancora in vita al Río de la Plata, nella zona del Delta del Tigre o ad altre zone fluviali. 

Un altro caso - che vede il coinvolgimento di “El Burro” - è quello di fratellini di uno e quattro anni sequestrati insieme ai loro genitori in Argentina da funzionari dell'intelligence uruguaiana. Nonostante le accuse puntassero dritto a Matos Narbondo, le indagini della giustizia uruguaiana a suo carico non riuscirono a dimostrare la sua colpevolezza per mancanza di prove, e quindi fu assolto. In quanto ai bambini, Victoria ed Anatole Julien Grisonas, si seppe in seguito che dopo essere stati portati dai loro rapitori nei centri clandestini furono abbandonati in una piazza pubblica del Cile dove una famiglia si fece carico di loro. Anni dopo hanno finalmente recuperato la loro identità, ma non hanno mai trovato in vita i loro genitori. 

Un altro episodio di assoluta criminalità politica, nei giorni della dittatura uruguaiana ed argentina che vede accusato "El Burro" riguarda la morte degli ex legislatori uruguaiani Zelmar Michelini e Héctor Gutiérrez Ruiz, senatore del Frente Amplio e deputato del Partido Nacional (presidente della Camera di Deputati) rispettivamente, sequestrati in Argentina - nel 1976 - portati ad Orletti e infine, dopo essere stati selvaggiamente torturati, furono finiti a colpi di arma da fuoco,  insieme a Rosario Barredo e Willian Whitelaw, due giovani legati al MLT Tupamaros. I quattro cadaveri furono abbandonati per strada all’interno di un veicolo, in un quartiere della capitale argentina.

Questo caso ha colpito profondamente la società uruguaiana e il sistema politico, in tempo di democrazia, cioè, negli anni ’80. Il militare Mato Narbondo fu direttamente accusato sin dall’avvio delle indagini per far luce sul fatto. Indagini che presero il via a radice della dichiarazione di un'infermiera che aveva in cura il militare e che, dopo un episodio depressivo, rivelò ad una commissione del Parlamento uruguaiano che lui le aveva confessato l’omicidio di Michelini, mostrandogli perfino un trofeo che gli fu conferito - come riconoscimento - dalle Forze armate uruguaiane.

Trapelata quell'informazione alla stampa (di fatto, ovviamente, per neutralizzare le indagini dietro una cospirazione sicuramente di origine castrense e con la presunta complicità di membri del sistema politico), ogni speranza di far luce sul crimine si dissolse e l'infermiera non contò con le dovute garanzie per continuare con le sue dichiarazioni. Di conseguenza "El Burro" passò inosservato e protetto dal manto dell'impunità. Tuttavia, nel 2011, per la sua partecipazione in questo stesso episodio, sia il dittatore Juan María Bordaberry (oggi deceduto), ed il suo allora Cancelliere Juan Carlos Blanco furono processati e condannati a 30 anni accusati di sparizioni forzate e crimine politico.

Ma "El Burro" è ancora impunito. Vive la sua vita serenamente in Brasile. Ma all'orizzonte, soprattutto (e fortunatamente) dopo la condanna in Italia, ci sono alcune dense nuvole che incombono sulla sua persona. 

Matos Narbondo, sebbene vive in territorio brasiliano, per fare effettiva la sua pensione, di circa 80 mila pesos, ha l'obbligo di presentarsi ogni dato periodo di tempo in territorio uruguaiano, per dare prova di vita. E come lo fa? Visto che non può entrare in Uruguay, di fronte alla possibilità di essere fermato, invia, attraverso sua moglie, un certificato medico al dipartimento di Rivera. Il settimanale Brecha - nel 2019 - rivelò in un approfondito articolo che Matos Narbondo non solo avrebbe attraversato la frontiera diverse volte, ma, inoltre, in un'occasione si presentò al Consolato uruguaiano di Livramento, dove in teoria, avrebbe dovuto essere fermato, ma ciò non accadde. La stampa interrogò il Console Elisa Peres sulla questione, ma non ebbe alcuna risposta da parte sua. 

Parallelamente, sopravvenne il giudizio e successiva condanna in Italia, ed è a questo punto che sorge una possibilità che "El Burro" possa essere portato davanti alla legge, ma in territorio brasiliano. Si è appresso che il Ministero Pubblico uruguaiano avrebbe invocato un accordo tra gli stati del Mercosur che obbligherebbe il Brasile ad assumere la sentenza contro il militare in un Tribunale nazionale. 

Un mezzo stampa brasiliano ha segnalato che una fonte della giustizia uruguaiana, che ha chiesto di rimanere nell’anonimato, ha detto che: "Se l'Italia sollecita l'estradizione di Narbondo, succederà la stessa cosa che in Uruguay: Il Brasile dirà che non può estradare i suoi cittadini. A questo riguardo uno o due mesi fa l'Uruguay sollecitò formalmente alla giustizia brasiliana di rispettare l'accordo del Mercosur e far processasse Mato Narbondo per i reati di cui è responsabile qui”. 

Il Brasile tace. Secondo il brasiliano Jair Krischke (presidente del Movimento per la Giustizia ed i Diritti Umani), la giurisprudenza brasiliana non riconosce l'imprescrittibilità dei crimini di lesa umanità, che invece sarebbe positivo per coloro che lottano affinché "El Burro" sia sottoposto alla giustizia. 

Forse l'ex militare Mato Narbondo andrà incontro alla stessa sorte dell’uruguaiano Néstor Trócoli condannato in Italia (dove stava godendo dell'impunità essendo cittadino italiano): cioè essere portato dinnanzi alla Corte in Brasile e rinchiuso in una prigione del Brasile, dando compimento alla sentenza dettata in Italia. 

Dal dire al fare la strada è lunga (e ancora da definire), di questo non c'è dubbio. Una strada carica di incertezze e di aspettative che, implacabili, ci lacerano brutalmente. Gli anni trascorsi, le abulie giudiziali ed indifferenza spingono noi che scriviamo dalle nostre redazioni - giorno per giorno - denunciando tali impunità e le famiglie di chi perse la vita per mano di quelle bestie (che hanno ancora la sfacciataggine ed il cinismo di godere di certi benefici), a incrementare le richieste di giustizia, a diversi livelli. 

Richieste che a voce alta si moltiplicheranno, con la forza e l'intensità che corrisponde a qualunque essere umano orgoglioso di essere tale e che sia consapevole che la criminalità esercitata durante le dittature deve far scaturire dal profondo del nostro essere la sete di giustizia, affinché i corrotti che lavorano ancora oggi per proteggere i responsabili dei delitti di lesa umanità, si facciano carico della propria bassezza e vigliaccheria, assimilando che anche loro, pur non avendo torturato, violentato o assassinato, hanno le mani sporche di sangue, e non potranno camminare nella vita a testa alta, né di fronte alla società, né di fronte ai loro figli, perché già solo per la loro omertà sono complici, e quindi colpevoli. 

Veramente colpevoli, perché hanno scelto di guardare altrove, come se niente fosse successo.

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