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Repressore uruguaiano muore a 81 anni

È deceduto - all'età di 81 anni - in una stanza dell'Ospedale Militare, il militare uruguaiano in pensione José Nino Gavazzo (in foto), dopo 20 giorni di ricovero per le gravi condizioni di salute. Il decesso è avvenuto per un ictus e la sua morte, 48 anni dopo il colpo di stato civile-militare in Uruguay, ha per noi un significato particolare. Per noi, che lottiamo affinché i responsabili e i complici di quel vile attentato contro la democrazia siano portati davanti alla Giustizia e perché vengano ritrovati nelle caserme militari i resti di circa duecento desaparecidos; ora più che mai dobbiamo raddoppiare gli sforzi istituzionali e dei cittadini, per arrivare alle verità sul periodo dittatoriale, tra il 1973 e il 1984, che vide la libertà ed i diritti fondamentali della democrazia brutalmente spazzati via mediante assassinii, indescrivibili sofferenze ed esili, il tutto in un machiavellico progetto di dominio e sottomissione imposto in quei giorni dagli Stati Uniti, non solo in Uruguay, ma anche in altri paesi del Cono Sud, nel quadro del cosiddetto Piano Condor, che mirava a imporre un nuovo modello mettendo tutto a ferro e fuoco.
La morte di repressori come Gavazzo aumenta la distanza dalla verità e dal ritrovamento dei resti degli scomparsi. Un argomento che fa parte della nostra storia nazionale e che non possiamo permetterci il lusso di ignorare, in special modo se pretendiamo che sia fatta giustizia, almeno come società democratica, quale il nostro governo dice che siamo, a meno che i nostri governanti non si abbandonino a quella insensibilità storica che li porterà a essere divorati nelle fauci di un'ipocrisia e di una demagogia eclatante, nell’affanno di voltare pagina e basta (forse per proteggere la cultura dell’impunità di cui godono i repressori che passeggiano tra noi).
La notizia del decesso di Gavazzo è, di fatto, un duro colpo per chi, in ambito giudiziale, stava ancora indagando su di lui nei diversi procedimenti che si sono accumulati nel tempo.
Questo personaggio, che faceva parte della casta militare uruguaiana, ha avuto la sua visibilità mediatica (libri, articoli giornalistici, e persino rilevanza in crisi di carattere politico, grazie alla sua personalità ed alla sua nefasta attività di repressore, praticamente sin dal primo momento che finì sotto processo, qualche anno fa. È stato sempre considerato un elemento chiave nelle indagini legate alle molteplici violazioni di diritti umani, commesse al tempo della dittatura civile-militare in Uruguay e in Argentina.
Tutti i mezzi di comunicazione dell'Uruguay hanno diffuso la notizia presentando la figura di Jose Nino Gavazzo con un profilo ed un curriculum ben lontano dal militare che difende la legalità, la Costituzione e le istituzioni. Anzi, viene accostata a una criminalità mafiosa, in base alla quale attentare contro la vita umana dei detenuti (reclusi per le loro idee) era per lui una routine lavorativa ed una missione ideologica, una vera e propria quotidianità indossando l’uniforme e come rappresentante delle Forze armate.
Gavazzo era stato condannato a 25 anni di prigione per almeno 28 crimini di lesa umanità nel 2009, insieme ad altri militari in pensione come Gilberto Vázquez, Ricardo Arab, Jorge "Pajarito" Silvera ed Ernesto Avelino Ramas, tutti accusati di delitti come “omicidio particolarmente aggravato”.
Ma in questo cupo contesto (del quale nessun militare onesto e leale alla Costituzione della Repubblica si sarebbe sentito orgoglioso), Gavazzo ha sempre dichiarato apertamente di avere compiuto il suo dovere e di avere agito correttamente, orgoglioso della sua condotta, sia nel passato che nel presente, quando era sotto indagine, e poi da detenuto (al punto di scrivere un libro dove giustificava il suo lavoro di repressore), ed anche nelle rare interviste concesse ai giornalisti in esclusiva per un articolo o reportage.
A causa di una cultura dell'impunità ben radicata nella nostra società sin dalla fine della dittatura ad oggi (e nella maggioranza dei membri del sistema politico che hanno permesso che così fosse) che protegge i repressori dall’interno delle stesse Forze Armate e della Polizia, negli ultimi tempi a Gavazzo erano stati concessi i domiciliari, quindi aveva lasciato il carcere dei repressori in via Domingo Arena, dove comunque i detenuti usufruivano, ed usufruiscono, di un'infrastruttura dove non mancano le comodità, dato che la struttura fa parte del Sistema Nazionale di Riabilitazione del Ministero dell'Interno, dal quale dipendono tutte le prigioni del territorio nazionale. Attualmente però la maggior parte degli edifici presenta condizioni edilizie e di convivenza di estrema vulnerabilità, le carenze alimentari, sanitarie e di vita quotidiana delle persone private della libertà per reati comuni, più di 13.000 in tutto il paese, sono caotiche e non rispettano i più elementari diritti umani, con l'aggravante della sovrappopolazione carceraria, caratteristica saliente del sistema penitenziario attuale dell' Uruguay, con alcune eccezioni, a Montevideo ed all'interno del paese.
Il militare in pensione José Nino Gavazzo era ben lontano da quella realtà di sofferenze carcerarie, come tutto il resto dei repressori. Lui, in particolare, rappresentava un vero emblema della repressione dittatoriale e dell'omertà (cioè il silenzio e la manipolazione delle azioni da parte della controintelligence). Omertà che ha accompagnato e accompagna, quasi religiosamente, tutto l'apparato repressivo latinoamericano per favorire un sistema politico ed economico servile ai poteri del Nord, promovendo dottrine e misure che tendono al saccheggio e alla distruzione della sovranità, in vari modi.
L'aspetto della vita di repressore di Gavazzo che ultimamente più ha scandalizzato (con ripercussioni perfino all’interno del sistema politico e dell'amministrazione di Tabaré Vásquez), è stata la diffusione (e quindi la conoscenza da parte dell'opinione pubblica), dei verbali del Tribunale Militare di Onore che hanno permesso di venire a conoscenza che (secondo le sue dichiarazioni rese a detto Tribunale ed in quanto membro attivo integrante dell'OCOA, Organismo di Operazioni Antisovversive) fu lui personalmente a gettare nelle acque di Río Negro, nel 1972, il corpo del giovane militante tupamaro Roberto Gomensoro Hoffman, legato con le pietre, dopo una sessione di torture alla quale lui stesso partecipò presso un'unità militare di Montevideo.
Bisogna ricordare che il giovane Gomensoro Hoffman fu il primo prigioniero politico la cui sparizione è stata ammessa da un militare uruguaiano, in questo caso Gavazzo, ma solo di fronte al Tribunale Militare di Onore, e non davanti alla Giustizia.
Noi pensiamo che Gavazzo non immaginava che quelle confessioni sarebbero giunte alla opinione pubblica e alla grande stampa, scatenando una crisi politica in seno al governo del Frente Amplio; questo perché né i militari del Tribunale di Onore, né il comandante dell'Esercito (in carica all’epoca in cui il Tribunale prese la dichiarazione di Gavazzo, cioè l'attuale leader del partito Cabildo Abierto, il generale in pensione Guido Manini Ríos), trasferirono questa informazione alla Giustizia Penale affinché agisse immediatamente e non dopo che fossero usciti alla luce i verbali dal Tribunale, per una circostanza, se si vuole "fortuita" (i verbali furono consegnati ad un giornalista del quotidiano "El Observador").
Gavazzo è stato anche coinvolto nelle indagini effettuate sul secondo atto del Piano Condor, sul furto di denaro e sulle attività estorsive rivolte ai dirigenti detenuti nel centro di reclusione clandestini a Buenos Aires (a cui si aggiunge anche la causa della giovane argentina María Claudia García di Gelman, e quella del maestro e giornalista Julio Castro) ed anche per la sua partecipazione negli assassini e torture dei legislatori uruguaiani a Buenos Aires, Zelmar Michelini, Héctor Gutiérrez Ruiz ed il giovane tupamaros Rosario Barredo e Willian Whitelaw. Attualmente, al momento del suo decesso, erano in corso delle indagini per altre cause, tra cui quella delle Ragazze di Aprile, da quando, dalla Procura specializzata in delitti di Lesa Humanidad, era stato richiesto di procedere a suo carico per altri omicidi.
Gavazzo ha significato molto per le vittime della dittatura in quanto autore ineludibile di tormenti e morte su entrambi le sponde del Río de la Plata, e ha rappresentato un vero emblema per la repressione. Oggi la sua scomparsa fisica sembra la cronaca di una morte annunciata, nel senso che questa conclusione ci porta, inevitabilmente, a prendere coscienza che la triste realtà dei cicli biologici - impossibili da evitare - subentrano a beneficio dei colpevoli del terrorismo di Stato, fin quando le società che si vantano di essere democratiche continueranno nella loro sonnolenza individualista ed egoistica, rimanendo cieca di fronte i genocidi e gli autoritarismi dello stivale militare (con la complicità di politici spietatamente insensibili alle condizioni dei cittadini liberi) per gonfiare ancora di più gli effetti e la bontà della cultura dell'impunità.
La morte di José Nino Gavazzo, occorsa due anni prima del cinquantesimo anniversario dalla instaurazione della dittatura civile-militare nell'Uruguay, è la dimostrazione più cruda e più patetica che non possiamo aspettare passivamente che la morte si porti via i repressori, sarebbe come tradire i nostri desaparecidos e tutti quelli che furono torturati nella resistenza popolare o morti, prima, durante e anche dopo i giorni del terrorismo di Stato.
Gavazzo si è portato i segreti alla tomba? Certamente sì. Ma siamo anche certi che quei segreti, coperti dal tipico silenzio mafioso della repressione, prima o poi saranno giudicati dalla storia, e giustizia sarà fatta.
Perché il valore assoluto della giustizia non conosce né omertà, né impunità, né tempi cronologici. Conosce la coscienza, il coraggio dei cittadini che non sempre va a braccetto - purtroppo - con la coscienza istituzionale.
Per questo motivo, avanti nella lotta. Uniti.

Foto di copertina: da La Diaria (di archivio, settembre 2018), di Federico Gutiérrez

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