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20210506 8 giorno protesta colombio

Cortei, abusi di potere e rivolte civili sono il comune denominatore che sta caratterizzando tutta la Colombia, dove da una settimana a questa parte nelle varie città e non solo, è in corso un Paro Nacional (sciopero nazionale) come forma di opposizione e resistenza contro l’insieme di leggi neoliberiste, fra cui la riforma fiscale, presentate dal governo del presidente Ivan Duque. Le prime proteste sono datate 28 aprile e decine di migliaia di persone hanno manifestato nelle maggiori città colombiane con blocchi stradali, scioperi e cortei, per denunciare il pacchetto di leggi annunciato da Duque. Pacchetto che, oltre alla contestatissima riforma fiscale, includerebbe anche quella del lavoro, della pensione e della sanità: una riorganizzazione che andrebbe ad incidere sul costo della vita soprattutto dei ceti più bassi della popolazione, aumentandolo fortemente. Praticamente si tratta di un brutale piano di tagli che, soprattutto nel settore sanitario, darebbe il via ad una serie smisurata di privatizzazioni, imponendo tagli ad ospedali pubblici e introducendo normative pericolose in quanto alla dignità e al diritto di accesso alle cure di tutto il popolo colombiano. Il tutto sarebbe stato discusso in un periodo di crisi pandemica, che in Colombia, oltre ad aver causato circa settantamila morti, ha portato a un tasso di povertà del 42%. Un aggravamento preoccupante di fronte alla già drammatica situazione sociale del paese, dove quasi la metà della popolazione si trova a fronteggiare quotidianamente il problema della fame.
Allarmante è anche la situazione sul piano umanitario. Infatti, da quando sono stati firmati gli Accordi di Pace fra l’ex presidente colombiano Juan Manuel Santos e vari rappresentati delle ormai disciolte Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia - Esercito del Popolo (FARC-EP) il 30 novembre 2016, sono stati assassinati 904 colombiani, quasi tutti attivisti sociali, leader indigeni e difensori dei diritti umani e 276 ex-combattenti delle Farc-Ep. Davanti a queste cifre spaventose, gli indigeni della comunità di Misak, testimoni di questa mattanza, resa possibile dalla più totale inazione del governo colombiano, esattamente una settimana fa mercoledì 28 aprile nel comune di Popayan (capoluogo del dipartimento di Cauca), hanno demolito la statua del conquistatore spagnolo Sebastian de Belalcazar. Un’azione spinta dal “vendicare la memoria degli antenati assassinati e schiavizzati” ha spiegato il presidente del Movimento Alternativo Indigeno e Sociale (Mais) Martha Peralta, su twitter. Ma oltre al sentimento di rivalsa nei confronti del brutale genocidio indios che persiste da oltre cinquecento anni in tutto il continente latino-americano, l’atto è stato realizzato “come segnale di protesta nei confronti della crisi” come ha spiegato lo stesso popolo Misak.
Simbolicamente l’abbattimento della statua del conquistatore spagnolo, è stato l’atto inaugurativo che ha dato il via all’opposizione popolare in tutto lo Stato colombiano, e che (finalmente) ha fatto scendere in strada persone civili, organizzazioni per i diritti umani, attivisti sociali e leader indigeni uniti contro un unico nemico comune, ovvero la politica autoritaria e antidemocratica che porta la firma del Presidente Ivan Duque Marquez. L’epicentro delle proteste si è verificato nella capital del Valle del Cauca, Cali, città già duramente colpita dalla forte crisi economica e pandemica. Tali rivolte hanno avuto il loro culmine con il massacro di Cali il 29 e 30 aprile, per mano di una brutale repressione militare che ha sparso molto sangue: violazioni della carta costituzionale in ambito di protesta popolare, uso di armi non convenzionali, abusi sessuali e addirittura omicidi. Azioni di guerra che, soprattutto recentemente, si stanno diffondendo sempre di più in tutto il territorio latino-americano e che sono frutto di governi tutt’altro che democratici. In quei giorni i numeri già parlavano infatti di oltre novanta persone in stato di arresto, ventotto ferite e una donna stuprata dal reparto di polizia anti-sommossa (Esmad). A seguito dell’incremento della gravità della situazione molteplici Organizzazioni in Difesa dei Diritti Umani hanno allestito una conferenza stampa la sera del 30 aprile a Cali, trasmessa da Red de Derechos Humanos Francisco Isaías Cifuente, per individuare la responsabilità “politica nella catena di comando delle forze dell’ordine e chiedere accertamenti sulle responsabilità di chi ha dato l’ordine alle forze di pubblica sicurezza di compiere abusi e atti di delinquenza”. Nella giornata del primo maggio, decine di città e zone rurali sono state militarizzate: ciò ha portato a una richiesta ancora maggiore dello smantellamento delle forze militari, della violenza sistematica contro leader sociali, ex componenti delle Farc e la fine del sostegno delle grandi multinazionali che persistono nello sterminio dei popoli indigeni e nella sottrazione dei territori ancestrali.
Durante la sera del 2 maggio il Presidente Ivan Duque ha dichiarato il ritiro della riforma fiscale, con l’intenzione di riproporre il testo al Congresso con delle revisioni, al momento non meglio specificate. L’annuncio ha da subito attivato gli organizzatori dello sciopero, i cui partecipanti hanno dichiarato che “si tratta di una battaglia vinta ma che non ci fermeremo fino a che non verrà ritirato dal governo l’intero pacchetto di riforme, che include quella sanitaria, del lavoro e delle pensioni, fino a quando non ci sarà giustizia per le persone assassinate, arrestate e ferite in questi giorni di mobilitazione, fino a quando non smilitarizzate le città”.
La situazione nella quale il popolo colombiano si trova attualmente è disperata, ma ciò che pare ancora più assurdo e inverosimile è il quasi totale silenzio mediatico da parte delle maggiori testate giornalistiche del nostro Paese come nel resto d’Europa che, così facendo si rendono indirettamente complici e colpevoli di tali ingiustizie. Un modus operandi che il mondo Occidentale sembra prediligere verso determinate tematiche scomode, tenendole all’oscuro dal dominio pubblico.
Ad oggi, 5 maggio, esattamente una settimana dall’inizio della protesta civile del popolo colombiano che persiste tuttora, il conto ufficiale di abusi da parte della forza pubblica parla di cifre spaventose. Si contano infatti più di mille casi di abuso poliziesco, 800 detenzioni arbitrarie, 40 casi di uso di armi da fuoco, 30 omicidi, e una decina di vittime di violenza sessuale da parte della polizia.
Cile, Perù, Bolivia, Argentina, Uruguay e Colombia: da due anni a questa parte si diffonde sempre di più, in ogni regione del continente Latinoamericano, quel sentimento di risveglio collettivo e di protesta contro l’oppressione politica, economica e militare attuata dai governi. Quello colombiano è un popolo che ha sofferto per troppo tempo atti di genocidio e di schiavitù, prima per mano dei colonizzatori spagnoli, ed ora per quella di un sistema razzista, fascista e patriarcale, che dà priorità agli interessi di natura capitalista, a scapito del benessere della propria gente. Quest’ultima però sta lottando, giorno dopo giorno, trovando sempre maggiore forza nella sua sofferenza, nei suoi martiri e nelle sue radici. E ci auspichiamo che anche l’Italia, come tutta l’Europa, la quale si dichiara un continente civile e democratico, possa uscire dal proprio stato di indifferenza e possa iniziare ad alzare la testa e a mettere davvero in pratica tali principi.

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