A Tel Aviv giovane operaio palestinese illegale precipita e muore scappando dalla polizia in un cantiere
Quanti ne conosco: cugini, amici, vicini di casa. Quanti, soffocati dal tallone dell’occupazione, del segregazionismo, cercano un lavoro come muratore o imbianchino nella “civiltà”, a Tel Aviv, per tirare su qualche centinaio di Sheql al mese in più. Quanti? Tanti, troppi. Quanti palestinesi ho visto alzarsi alle cinque di mattina per andare a lavorare clandestinamente, senza permessi, con salari inferiori ai loro colleghi, in Israele, quella che un tempo era terra dei loro nonni prima che venisse strappata via dal sionismo. Quanti ragazzi ho visto scavalcare il filo spinato di nascosto e correre veloci come puledri per centinaia di metri oltre le barriere per poi dileguarsi tra le periferie. Quanti ne ho visti tornare a casa la sera distrutti dalla fatica, dallo sfruttamento, dal razzismo strisciante di colleghi e datori di lavoro israeliani. Quanti ho saputo arrestati dalla polizia di frontiera che spesso e molto facilmente ricorre all’uso delle armi da fuoco per disincentivare i giovani dal saltare la barriera. Quanti ho saputo finiti ammazzati, quanti incarcerati. Li affamano e poi li uccidono. Mercoledì un altro giovane, senza permessi di lavoro, è morto perché fuggendo dai poliziotti che lo stavano inseguendo in un cantiere a Tel Aviv è precipitato in un pozzo aperto alto dieci metri. Inutili i soccorsi. Aveva 20 anni, originario di Ramallah. La sua identità non è nota alle cronache italiane, troppo spesso omertose quando si parla di morti palestinesi. E’ l’ennesimo giovane senza nome, vittima di un sistema segregazionista e razzista che da troppo tempo compromette il futuro di intere generazioni. E’ l’ennesima anima innocente strappata da quel cancro che è Israele.
(27 Marzo 2021)
Tratto da: facebook.com