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Sono passati 22 anni da quel 24 marzo 1999, giorno nel quale gli Stati uniti, con l’operazione “Allied Force”, posero fine a quello che restava della Repubblica Federale di Jugoslavia. Si trattava dell’ultimo atto di una grande opera di distruzione avviata 10 anni prima secondo il principio del “dividi et impera”

Una guerra innanzitutto economica
Il piano di conquista venne avviato nell’autunno del 1989, poco prima della caduta del Muro di Berlino, ed assunse subito le caratteristiche della predazione economica per mezzo del debito: Ante Markovic, allora primo ministro della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, incontrò a Washington George H. W. Bush, per negoziare la concessione di nuovi aiuti economici per la Jugoslavia. Dagli americani, però, venivano chieste riforme economiche radicali, quali il congelamento dei salari (con un’inflazione galoppante in quegli anni), la svalutazione del dinaro, ingenti tagli alla spesa pubblica. Insomma, tutte quelle ricette che finiscono per avvantaggiare il capitale, e svantaggiare i popoli e le classi subalterne. In seguito, le imprese insolventi vennero liquidate e consegnate nelle mani delle banche creditrici: nel 1990, il Pil crollò del 7,5%, e di un ulteriore 15% l’anno successivo; la produzione industriale calò del 21%; circa 600.000 persone persero il posto di lavoro, mentre un ulteriore mezzo milione, pur lavorando, non percepiva lo stipendio. 
Il 5 novembre 1990, invece, attraverso la celebre legge 101/513, che prevedeva la sospensione degli aiuti economici americani alla Jugoslavia, la riattivazione del flusso dei finanziamenti da parte degli USA venne vincolata all’organizzazione di elezioni da tenere separatamente in ogni repubblica membro della federazione ed alla contemplazione di un sostegno economico ai movimenti secessionisti.

Le secessioni, il periodo del conflitto e l’embargo commerciale 
La secessione di Slovenia, Croazia, e Bosnia, il periodo delle guerre per la spartizione del territorio, l’esplosione del conflitto etnico, il crescendo delle sanzioni economiche nei confronti di quella parte di Federazione che aveva scelto di conservare l’appellativo di Jugoslavia (Serbia e Montenegro, incluse le province autonome di Kosovo e Vojvodina), e l’embargo commerciale previsto dalla risoluzione 757 dell’ONU, resero irreversibile il destino dell’ultimo sistema socio-economico alternativo rimasto in Europa e dell’ultimo ostacolo all’espansione della Nato e del “free market” verso est, avviate a seguito del crollo dell’Unione sovietica: alla fine del 1996, oltre il 30% della popolazione era caduta in stato di povertà; il 60% dei lavoratori era disoccupato; l’industria funzionava al 20/30% delle sue capacità; nel 1998, gli USA e l’UE imposero addirittura una moratoria alla Jugoslavia sui crediti e sugli investimenti. Tale situazione cessò con la firma degli Accordi di Dayton, il 21 novembre 1995. Tali accordi, tuttavia, sancirono il completo svuotamento della sovranità popolare e democratica della Jugoslavia, soprattutto da un punto di vista economico e militare: venne approvata la creazione di una nuova Costituzione per la repubblica di Bosnia-Erzegovina, la quale venne posta sotto un’amministrazione di tipo coloniale da parte di un “Alto Rappresentante” straniero. Al Fondo Monetario Internazionale venne affidata la gestione della Banca Centrale, la vendita e la ristrutturazione del patrimonio pubblico venne affidata alla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, con sede a Londra, in nome del “libero mercato”. Venne approvata inoltre la presenza sul campo di truppe NATO. 


bosnia 1999 aereo abbattuto

Danni provocati dai bombardamenti a Belgrado


La questione del Kosovo
L’ultimo incendio che avrebbe dovuto annientare definitivamente la Jugoslavia sarebbe scoppiato in Kosovo, provincia autonoma confinante con la Serbia, (repubblica ancora economicamente e militarmente di peso nell’est Europa).
Attraverso canali sotterranei, un fiume di armi e finanziamenti tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999, andò ad alimentare l’Uck (esercito di liberazione del Kossovo), in seguito decantato come liberatore dalla tirannia dei Serbi, nonostante nei primi mesi del 1998 il dipartimento di stato Usa lo avesse definito un’organizzazione terroristica.
Alcuni agenti della Cia dichiareranno in seguito di essere entrati in Kosovo nel 1998 e nel 1999 sotto le vesti di osservatori dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, stabilendo collegamenti con l’Uck, fornendogli manuali statunitensi di addestramento militare e consigli su come combattere l’esercito jugoslavo e la polizia serba, telefoni satellitari e apparecchi Gps. Tutto doveva essere pronto affinché il gruppo paramilitare fosse in grado a scatenare un’offensiva contro le truppe federali e civili Serbi.
Quando gli scontri tra l’Uck e le forze jugoslave iniziarono a provocare vittime da ambo le parti, una potente campagna politico mediatica venne messa in opera per preparare l’opinione pubblica all’intervento Nato nel paese. L’opera di mediazione dell’Ocse venne artatamente fatta fallire quando, nel gennaio 1999, venne annunciato a Racak, zona controllata dall’Uck, l’eccidio di 45 civili albanesi.
Nonostante una commissione indipendente finlandese avesse dimostrato successivamente che si sarebbe trattato di combattenti albanesi vittime negli scontri, William Walzer, capo della missione Ocse e già agente della Cia in Salvador negli anni 80’, ritirò la missione internazionale. I serbi vennero accusati di pulizia etnica e le tv nazionali martellarono l’opinione pubblica con la sentenza di condanna già programmata nei confronti del nuovo “boia”, il presidente della Repubblica Federale Jugoslava Slobodan Milosevic, oramai considerato unico capro espiatorio di tutti i crimini del Kosovo.

L’inganno occidentale degli Accordi di Rambouillet
L’ultima finestra aperta ad una possibile soluzione pacifica del conflitto venne offerta negli accordi di Ramboullet, sottoscritti a Parigi il 18 marzo dai kosovari albanesi, ma inaspettatamente respinti dalla rappresentanza serba. Ma, evidentemente, non si trattava di clamoroso autolesionismo da intervento militare americano. Il capitolo 4A degli Accordi si apriva, all’art. I paragrafo 1, con la frase: “L’economia del Kosovo funzionerà in accordo con i principi del libero mercato”, impedendo così che ci fossero ostacoli “al libero movimento di persone, beni, servizi e capitali da e verso il Kosovo”; all’art. II si consegnava nelle mani della NATO il controllo delle operazioni economiche attraverso “(…) la creazione di una commissione per la risoluzione dei conflitti” composta da 3 esperti designati dal Kosovo, 3 esperti dalla Jugoslavia e dalla Repubblica di Serbia,  ed altri 3 esperti indipendenti designati dal CIM (il comando della missione operativa dell’OSCE, a sua volta coordinata con la KFOR, il nome della NATO in Kosovo). Dalla restante parte degli Accordi si evince il predominio assoluto delle forze militari della NATO sul CIM, e quanto dunque la NATO sia padrone del Kosovo e da qui della Jugoslavia. Negli accordi è riportato che “il CIM sarà l’autorità finale in merito alla interpretazione degli aspetti civili di questo accordo, e le parti sono d’accordo ad attenersi alle sue determinazioni e di considerarle vincolanti su tutte le parti e le persone”. E ancora: “(…) la NATO stabilirà e schiererà una forza che potrebbe essere composta da unità di terra, aria e mare da Nazioni della NATO e non, che operano sotto l’autorità e soggette alla direzione ed al controllo politico del Consiglio Nord Atlantico (NAC), attraverso la catena di comando della NATO”. Veniva, inoltre, decretata l’istituzione di una No-Fly Zone per tutte le truppe jugoslave, e sancita la presa di potere e di controllo militare da parte della NATO; venivano fatte allontanare tutte le forze di polizia non assegnate al Kosovo prima del 1 febbraio 1998 e, in ultimo, veniva sancito che “(…) le Parti comprendono e concordano che il KFOR (Kosovo Force, forza militare internazionale guidata dalla Nato) schiererà ed opererà senza ostacolo e con l’autorità di intentare tutte le operazioni necessarie per aiutare a garantire la conformità con questo Capitolo”, che “Né il KFOR, né alcuno del suo personale sarà responsabile per ogni danno a proprietà privata o pubblica che loro possano causare nel corso dei doveri riferiti alla realizzazione di questo capitolo”, ma anche che “Le Parti comprendono che concordano che il COMKFOR (Comandante del Kosovo Force) dovrà avere l’autorità, senza interferenza o permesso di alcuna Parte, di fare tutto ciò che giudichi necessario e corretto, incluso l’uso di forza militare per proteggere il KFOR e l’IM (Missione Operativa dell’Osce), e svolgere i compiti elencati in questo capitolo”. 
Come testimoniato dall’allora ministro degli esteri Inglese, Lord John Gilbert, per obbligare i kosovari serbi al rifiuto degli Accordi, venne inserita una clausola all’ultimo minuto che prevedeva l'occupazione militare forzata di tutta la Jugoslavia da parte della NATO come precondizione alle Trattative. La trappola funzionò, e la Jugoslavia venne additata come un brutale ostacolo ad ogni dialogo per la tutela delle minoranze del paese. Non vi erano, dunque, più scuse o possibili tentennamenti all’intervento militare della Nato. A partire dal 24 marzo 1999, con la partecipazione attiva dell’Italia, iniziò una poderosa campagna di bombardamenti, ribattezzata dall’allora Primo Ministro Massimo D’Alema come “diritto di ingerenza umanitaria”. Egli mise a completa disposizione degli USA il territorio del Bel Paese, utilizzato come testa di ponte per le barbarie commesse nell’operazione “Allied Force”. 


bosnia 1999 aereo abbattuto

MiG-29 jugoslavo abbattuto in Bosnia


La conquista militare ed economica del Kosovo
Per 78 giorni, 1100 aerei effettuarono 38.000 sortite, sganciando 23.000 bombe e missili. Il 75% degli aerei e il 90% delle bombe e dei missili vennero forniti dagli Stati Uniti.
I bombardamenti provocarono migliaia di vittime civili e, ben lungi dall’essere indirizzati verso obiettivi militari per le tanto decantate esigenze umanitarie, vennero indirizzati principalmente verso i principali complessi industriali, energetici e minerari del Kosovo, verso i più importanti ponti sul Danubio e le maggiori vie di comunicazione anche commerciale: i complessi industriali dell’azienda automobilistica Zastava (che occupava 36.000 lavoratori) vennero ridotti in polvere; vennero colpiti gli stabilimenti petrolchimici di Pancevo; vennero distrutti 63 ponti, 14 centrali elettriche, 13 aeroporti, 23 linee e stazioni ferroviarie, oltre 300 scuole per un costo stimato in oltre 100 miliardi di dollari. A Trepca vi era la più importante società mineraria della regione, considerata da New York Times come “il più prezioso bene immobiliare dei Balcani”; dopo aver preso il controllo del complesso minerario di Trepca, la NATO lo affidò ad un consorzio privato chiamato “ITT Kosovo”, controllato da industrie del settore francesi, statunitensi e svedesi. Il territorio venne letteralmente spartito tra gli invasori: ai francesi venne assegnata la zona settentrionale, agli inglesi quella centrale, a tedeschi, russi e canadesi quella meridionale, agli italiani quella occidentale. 
Incalcolabili i danni alla salute e all’ambiente: solo dalla raffineria di Pancevo fuoriuscirono migliaia di tonnellate di sostanze chimiche altamente tossiche, mentre il massiccio impiego di proiettili ad uranio impoverito provocò un notevole aumento delle patologie tumorali, in particolare del carcinoma polmonare.
Il 10 giugno 1999, le truppe della federazione jugoslava si ritirarono dal Kosovo e la Nato pose fine ai bombardamenti. Con la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, si autorizzavano Stati Membri e rilevanti organizzazioni internazionali a stabilire la presenza internazionale di sicurezza in Kosovo, ruolo che, come chiarì ben presto Bill Clinton, sarebbe stato assunto dalla Nato con una forza di dispiegamento internazionale. Mentre dunque, secondo gli accordi sottoscritti e la risoluzione dell’Onu, il Kosovo sarebbe dovuto restare parte della federazione Jugoslava, la zona venne de facto trasformata in un vero e proprio protettorato dell’Alleanza Atlantica, la quale edificò a Urosevac Camp Bondsteel, la più grande base militare statunitense di tutta l’area, destinata a rimanervi per sempre. Con questa imponente occupazione militare gli spettatori, i sostenitori della grande “guerra di ingerenza umanitaria”, avrebbero dunque finalmente potuto compiacersi dei garantiti diritti di tutti i cittadini della regione?
L’Uck terrorizzò ed espulse dal Kosovo 260.000 serbi, rom, albanesi. Molti vennero assassinati o fatti sparire. Nessuno venne incriminato e nemmeno indagato. Abbiamo dovuto attendere il 2003 per veder arrestare un leader dell’Uck dal tribunale dell’Aja, che lo dichiarò responsabile di eccidi compiuti contro i Serbi nel 1998.  E i massacri, la brutale pulizia etnica attuata dal “regime” Jugoslavo? Al termine della guerra vennero inviati in Kosovo dal Tribunale per i crimini nell’ex Jugoslavia oltre 60 agenti dell’FBI, coordinati dall’Armed Force Institute of Pathology, al fine di verificare le prove della pulizia etnica compiuta dai Serbi in Kosovo.
Per mesi gli investigatori setacciarono le miniere di Trepca, le presunte fosse comuni di Pusto Selo ed il villaggio di Izbica, ma in nessuno di questi luoghi vennero trovate tracce degli eccidi. Il Tribunale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia ammise che sulle presunte 100.000 vittime della polizia etnica Serba in Kosovo, i corpi ritrovati erano solo qualche centinaio. 
Bilancio grave ma non sufficiente a provare l’accusa di pulizia etnica nei confronti dei serbi, della Jugoslavia, oramai ridotta ad un cumolo di macerie, a causa di una guerra che lasciò più morti e miseria di quanto la propaganda dell’occidente avrebbe potuto fabbricarne per l’ennesima “guerra di ingerenza umanitaria”.

Il nuovo invasore del XXI secolo è il capitale, il “libero mercato”
Tale conflitto si colloca perfettamente nella logica che il capitale sempre ripropone: quella della “inclusione neutralizzante”, come scrive il filosofo Diego Fusaro nel suo ultimo libro “Difendere chi siamo” (Rizzoli, 2020). Il crollo dell’URSS offre all’economia di mercato immense praterie da andare ad inglobare e conquistare. Il modus operandi utilizzato dal capitale è sempre lo stesso: esso si muove dietro la retorica della democrazia, del benessere, della civilizzazione del mondo, del progresso. E quando il capitale incontra nazioni che a lui oppongono una resistenza, un confine, sempre viene accesa l’immaginifica sirena d’allarme del nemico, che può assumere i connotati del dittatore, del fascista, dell’imperatore totalitario. Del resto, per l’invasore, quale il capitale è, il confine è sempre un grosso problema. E non stiamo parlando del confine come limite invalicabile, ma come “limite giusto, che norma e regolamenta il passaggio”, che favorisce l’apertura all’altro attraverso il dialogo. Il capitale, l’ideologia di mercato, vuole invece annullare le identità di individui e popoli, includendoli nell’atto stesso con cui li omologa sotto il modello societario capitalistico del consumo senza fine, del profitto e dello sviluppo illimitato. L’Italia, con questa guerra, si è macchiata di un crimine aberrante. Ancora oggi viene calpestata la nostra Costituzione, che sancisce il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e di risoluzione delle controversie internazionali. Allora come oggi, rimaniamo chini ai voleri degli Stati Uniti, della NATO, e di un’Europa che, ormai si è capito, funge solamente come strumento di colonizzazione per l’adempimento dei voleri del “Padron Capitale”. 

In foto di copertina: un F-15E in partenza verso la Serbia dalla base di Aviano

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