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Si parla di migliaia di morti, ma il premier etiopico Abiy Ahmed nega persino che in Tigrai ci sia una guerra. E ha sostenuto a lungo che si conterebbero poche, pochissime vittime tra la popolazione civile. Quella in corso dall’inizio di novembre 2020 sarebbe “solo” una operazione interna di “ordine pubblico”, per assicurare alla giustizia il gruppo di ribelli del Fronte di Liberazione (Tplf) che avrebbe minacciato l’integrità della nazione, ponendosi al di fuori della costituzione. Ma, intanto, è stato impedito a tutti di andare a vedere, ascoltare, rendersi conto sul posto, testimoniare: blackout assoluto di ogni sistema di comunicazione e al bando tutta la stampa, specie internazionale. Cellulari muti, internet interrotto, telefonate impossibili, accesso vietato a chiunque: non solo ai giornalisti, ma anche alle organizzazioni umanitarie, che solo da pochi giorni hanno avuto modo di raggiungere qualche località. Il buio profondo di chi non vuole far sapere. Ma altroché “operazione di polizia”.

E’ una guerra civile e, insieme, un conflitto di carattere regionale, che rischia di allargarsi e sconvolgere l’intero Corno d’Africa. Lo dimostra il ruolo determinante che, nell’attacco al Tigrai, ha svolto fin dall’inizio l’Eritrea, uno Stato straniero ultranemico dell’Etiopia sino a poco più di due anni fa, ma ora stretto alleato di Addis Abeba. E lo dimostrano tutte le tensioni che sono via via esplose con altri Stati. Con il Sudan per una controversia di confine che ha già portato a sanguinosi scontri armati, ad esempio. O per lo strano ruolo della Somalia, protagonista di un rapido, saldo “riavvicinamento” ad Asmara e ad Addis Abeba, forse in funzione del crescente contrasto territoriale che la oppone al Kenya. Ma, soprattutto, è una guerra di una ferocia atroce. Così l’hanno descritta le decine di migliaia di profughi tigrini riparati in Sudan. E questo emerge, appunto, dai rapporti che, nonostante l’embargo, sono stati pubblicati da istituzioni internazionali come l’Onu, l’Unhcr o la Croce Rossa; organizzazioni di grande prestigio come Amnesty, Human Rights Watch e Medici Senza Frontiere; fonti autorevoli come la Curia di Adigrat. Finora, però, sono mancate le “immagini”: i filmati e le foto. Neanche uno di quei flash emblematici, spesso più efficaci di mille parole o comunque in grado di dare forza alle testimonianze più drammatiche. Qualcosa, però, sta emergendo. Come due video che raccontano un orrendo massacro a freddo: l’esecuzione spietata di decine di ragazzi inermi. Immagini terribili, su cui è doveroso fare luce sino in fondo. Nell’interesse anche dello stesso governo di Addis Abeba.

Le immagini
Si svolge tutto su un alto pianoro. Brullo, polveroso. Rocce e pietre tra l’erba gialla bruciata dal sole. Resiste solo qualche basso cespuglio verde. In lontananza si staglia il profilo di creste e ambe. Il paesaggio tipico dei monti del Tigrai. Il terreno segue un declivio leggero fino al ciglio di un profondo dirupo, solcato da fenditure scavate dall’acqua piovana. Seduto a terra, a un centinaio di metri dallo strapiombo, c’è un gruppo di giovani. Almeno 20, forse 25. Li circondano soldati in tuta mimetica, armati di kalashnikov. Soldati etiopi. Ogni tanto ne fanno alzare qualcuno: lo perquisiscono, facendogli togliere persino la camicia, così leggera e trasparente che non può nascondere nulla. Loro non possono fare altro: si alzano, obbediscono agli ordini. Ma è l’ultimo atto della loro vita. I soldati cominciano a prelevarli a due a due, distanziati di qualche metro, spingendoli con la canna del fucile verso il dirupo. Quando mancano pochi passi al ciglio, fanno fuoco. Le vittime cadono in avanti e quelli continuano a sparare: si vedono distintamente le piccole nuvole di polvere sollevate dai proiettili a raffica. Un’esecuzione a freddo. Sistematica, spietata. E’ orrendo. Eppure quello che viene dopo è ancora più atroce. Alcuni dei corpi morenti o senza vita sono finiti nel burrone. Altri sono come in sospeso sul bordo. Qualcuno è a pochi metri dall’orlo. Si sente una voce gridare: “Gettali giù dal dirupo. Abbiamo imparato la crudeltà dai woyane (il dispregiativo usato per indicare i tigrini: ndr). Non possiamo farne a meno!…”. E subito, mentre si odono i colpi delle ultime esecuzioni, si vede un soldato che afferra un cadavere per le gambe e lo scaraventa giù. E poi un altro. E un altro ancora. Ancora… Ma non è finita. Una voce urla: “Questo è quello che gli tocca… Sarebbe stato fantastico se avessimo avuto del carburante (per bruciare i corpi: ndr)”. Nuovi colpi interrompono quelle parole. E allora la stessa voce intima: “Non sprecare proiettili… Ha detto che il Tplf vincerà e allora questo è il suo destino… Quello è morto.”. Ancora colpi di kalashnikov. E la voce: “L’altro non è morto… Uccidilo, uccidilo, sparagli. Sparagli o lascia che gli spari io… Colpiscilo…”. Si vede un altro soldato che spara a bruciapelo contro un corpo steso inerte a terra. E la voce di prima: “Un colpo è abbastanza, non sparare di nuovo. Ecco fatto!…”. La scena finale è una panoramica sul ciglio del pianoro cosparso di cadaveri. Uno dei morti, un ragazzo contro cui viene esploso un ultimo colpo, è steso bocconi proprio sull’orlo, con le gambe giù nel dirupo e le braccia stese in avanti sopra la testa: le mani sembrano aggrapparsi al terreno, come in un estremo gesto di resistenza. Quasi un aggrapparsi all’estremo istante di vita

Resterà tutto impunito?
I due filmati hanno cominciato a girare sul web in questi giorni. Quei fotogrammi atroci sono in linea con i tanti orrori denunciati in Tigrai negli ultimi quattro mesi e mezzo. Secondo quanto viene riferito in rete, il massacro sarebbe stato perpetrato nella zona est del circondario di Axum. Uno degli episodi del martirio subito dalla “città sacra” e dal suo hinterland, dove – come emerge da diversi rapporti – si conterebbero più di mille vittime. Forse più di 1.500, la metà delle quali nelle adiacenze del complesso della cattedrale di Santa Maria di Sion o comunque nell’area urbana, strada per strada e casa per casa. Un capitolo dell’orgia di violenza che – riferisce l’ultimo bilancio stilato dall’agenzia Europe External Programme Africa (Eepa) – avrebbe provocato, in tutto il Tigrai, più di 50 mila morti, costretto oltre 65 mila uomini e donne a varcare il confine con il Sudan come rifugiati, scacciato dalle loro case 2,5 milioni di sfollati interni, ridotto alla fame 4,5 milioni di persone, tre quarti dell’intera popolazione Senza contare le distruzioni, i saccheggi, gli abusi. L’attacco sistematico a tutti i monumenti religiosi, alle chiese alle moschee, ai luoghi di cultura. La devastazione degli ospedali e delle strutture produttive. E gli stupri subiti, a quanto pare, da centinaia, forse migliaia di donne. C’è da chiedersi che cosa occorra di più per indurre la comunità internazionale a intervenire al più presto. Quanto meno per condurre una inchiesta indipendente e senza limiti, come chiede da tempo la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Perché non è vero – come insiste l’Etiopia e come hanno sostenuto la Russia e la Cina nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, con il favore anche di alcuni governi africani – che si tratterebbe di una ingerenza indebita nelle questioni interne di uno Stato indipendente. Se è vera anche solo una parte di quello che sta emergendo, in Tigrai si stanno commettendo crimini di guerra atroci e, verosimilmente, crimini contro l’umanità. Crimini imprescrivibili e per i quali la comunità internazionale non solo ha il potere ma soprattutto il dovere di intervenire.
(20 Marzo 2021)

In foto: il ragazzo ucciso sull’orlo del dirupo.

Tratto da: articolo21.org

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