Sono passati oramai 10 anni da quando nelle piazze delle città siriane si innescavano le prime dimostrazioni pubbliche contro il governo centrale di Bashar Al Assad. Tutte le televisioni nazionali mostravano i colori di una rivolta che si prometteva di scardinare la brutalità dell’ennesimo dittatore di turno; la forza delle immagini ancora una volta scandiva la litania menzognera di una guerra, scambiata per processo di "democratizzazione" e di libertà collettiva. Non trascorse molto tempo prima che le proteste, senz’altro legittime contro quello che in ogni caso, giuridicamente è un governo democraticamente eletto di uno stato laico, si trasformarono in una carneficina senza fine, nella quale la componente estremista violenta di stampo salafita, raggiunse il 75% della totalità dei "ribelli" anti-governativi. Ma come ha potuto una protesta che chiedeva le dimissioni del presidente Bashar al-Assad e la riforma di quella struttura istituzionale monopartitica del Partito Ba'th, trasformarsi in una guerra senza fine che vide la nascita del temuto e tristemente noto "Stato Islamico"?
Gli antefatti
La Siria, l’Iran e l’Iraq avevano firmato un accordo nel luglio 2011 per la messa in opera di un gasdotto che avrebbe dovuto collegare il giacimento iraniano di South Pars Sira al mediterraneo. La Siria sarebbe dovuta dunque divenire un hub dei corridoi energetici alternativi, entrando in competizione con altri percorsi controllati dalle compagnie europee e statunitensi. In particolare il Qatar-Turkey Pipeline era un condotto che sarebbe dovuto passare per il paese in questione e che avrebbe dovuto unire i due paesi trasportando il gas nel Vecchio Continente, passando per la Bulgaria. Il presidente Assad già nel 2009 aveva rifiutato il progetto, sostenendo che quest’ultimo avrebbe interferito con gli interessi del suo alleato russo. Anche quando le proteste antigovernative incalzarono nel giugno 2011, rifiutò gli aiuti economici degli Emirati Arabi (pari a 150 miliardi di dollari) per la rottura dell’alleanza politica militare ed economica con Teheran, in cambio anche della promessa da parte delle monarchie del golfo di porre fine alle rivolte cominciate a Daraa nel marzo dello stesso anno e poi propagatesi a Damasco e Hama. Tutte le premesse per l’operazione di aggressione e distruzione di una nazione erano state dunque realizzate e già premeditate anzitempo, come rilevato dall’ex comandante supremo della Nato Wesley Clark. Quest’ultimo nel 2007 illustrò i dettagli di un documento da lui visionato nel 2001 proveniente dall’ufficio del segretario alla difesa Donald Rumsfeld, nel quale si prospettava l’attacco di ben sette paesi in cinque anni. Nell’ordine: Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e, per finire, Iran.
L’operazione sotterranea della Cia
Come riportato sul New York Times, agenti della Cia operarono segretamente nella Turchia meridionale reclutando ed armando gruppi che combattevano contro il governo siriano. Essi ricevevano fucili automatici, munizioni, razzi anticarro, esplosivi, mentre la Turchia forniva il centro di comando a Istanbul, da cui veniva diretta l'operazione, e le basi militari in cui venivano addestrati i gruppi armati prima di infiltrarli. La guerra vera e propria deflagrò con una serie di attentati terroristici, effettuati a Damasco ed Aleppo. Giornalmente si susseguivano le immagini di edifici drammaticamente devastati con potentissimi esplosivi: un evidente lavoro, opera non di semplici ribelli, ma di professionisti di guerra ben addestrati. Non a caso, come riportava il Daily Star, centinaia di specialisti delle forze britanniche Sas e Sbs, operavano in Siria insieme ad unità statunitensi e francesi.
La nascita dell’Isis
Nel frattempo gruppi islamisti provenienti dall’Afghanistan, dalla Bosnia, dalla Cecenia, dalla Libia e da altri Paesi confluirono in Siria radunandosi nelle province turche di Adana e Hatai, al confine con la nazione, dove la CIA aveva aperto centri di formazione militare. Le armi venivano inviate attraverso i canali dell’Arabia Saudita e del Qatar che, predisponendo ingenti finanziamenti, permettevano alla Cia di acquistarle e organizzarne il trasporto attraverso un ponte aereo verso la Turchia e la Giordania. In un documento ufficiale del Pentagono, datato 12 agosto 2012 e desecretato il 18 maggio 2015 per iniziativa del gruppo Judicial Watch, si affermava che vi era "la possibilità di stabilire un principato salafita nella Siria orientale, e ciò è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono l’opposizione, per isolare il regime siriano, retrovia strategica dell’espansione sciita (Iraq e Iran)”. Non meno rilevanti furono le mail pubblicate da Wikileaks in cui emergeva che Hilary Clinton, nella corrispondenza con il consigliere dell’allora presidente americano Barack Obama, John Podesta, affermava che gli alleati statunitensi, Qatar e Arabia Saudita, avevano finanziato lo stato islamico. È in questo contesto che nel 2013 si forma l’ISIS, autoproclamatosi “Stato del califfato islamico”, il cui leader Abu Bakr al-Baghdadi, come documentato fotograficamente, avrebbe in seguito incontrato il senatore statunitense John McCain, capofila dei repubblicani. Cinematografici e degni di Hollywood furono i cruenti video diffusi dal nascente gruppo terrorista, che con sgargianti furgoni Toyota nuovi di zecca, sfrecciava nel deserto macchiandosi di efferate violenze contro la popolazione Siriana. Mentre gli Stati Uniti avviavano nel 2014 la campagna militare "Inherent Resolve", formalmente diretta contro l’ISIS, questi ultimi continuavano ad avanzare indisturbati sul territorio siriano, contro un governo oramai allo stremo delle forze che si era visto sottrarre la maggior parte del paese da tagliagole ben armati ed addestrati. Sarebbe stato l’intervento militare russo avviato nel 2015 a sostegno di Assad, a rovesciare le sorti del conflitto, mentre gli Stati Uniti, spiazzati dopo aver giocato la carta della frammentazione della Siria, avrebbero continuarono in ogni caso a mantenere la loro presenza nel paese; ancora oggi, punto caldo e regione di scontro tra le grandi superpotenze nucleari.
La guerra delle sanzioni contro il popolo siriano continua
Le sanzioni che erano state introdotte contro la Siria sin dall’inizio del conflitto non solo non si sono allentate, ma a partire dal 2020 sono state inasprite ulteriormente: attraverso il Caesar Act è stata bloccata ogni tipo di transazione economico-finanziaria-commerciale con Damasco. Continuano inoltre ad essere attive, anche col beneplacito dell’Unione Europea, misure punitive contro la famiglia Assad e contro esponenti del governo ed imprenditori. Si convince l’opinione pubblica occidentale che queste misure costituiscano attacchi mirati contro il "regime" e che non sortiscano alcun effetto sulle condizioni di vita della popolazione locale. In realtà le sanzioni includono l’embargo sul petrolio, restrizioni sugli investimenti, il congelamento dei beni della banca centrale siriana detenuti nell’Ue e restrizioni all’esportazione di attrezzature e tecnologie. In pratica una mannaia su settori strategici dell’industria siriana che inibiscono ogni tentativo di rinascita e di ricostruzione. Infatti l’arcivescovo greco-melkita di Aleppo, monsignor Jean-Clément Jeanbart in Siria ha denunciato “la gente non ha più cibo, elettricità, carburante e gas sufficienti per riscaldare le case. Non riesce a ottenere prestiti e andare avanti”. Un popolo che non ha più diritto ad un futuro, mantenuto in una condizione di povertà e di miseria, mentre viene strumentalmente immortalato per perseguire la propaganda velenosa contro l’ennesimo governo non allineato. Un bilancio che dopo 10 anni di menzogne, mezze verità e di una propaganda miserevole, lascia scolpite su un paese in rovina le colpe di un occidente che oramai ha perso anche le parole per difendere i suoi crimini.