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Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg non ha voluto lasciare più spazio ad equivoci o false interpretazioni ed al Council on Foreign Relations di New York ha ribadito: “La Nato dovrà occuparsi sempre più della sfida cinese, adattando il suo approccio strategico, e in un rapporto più stretto con Giappone, Australia, India”.
Un nuovo riassetto strategico che fa eco al primo summit globale dell’era Biden. Il Quad, club delle principali democrazie dell’area Indo-Pacifico (Stati Uniti, India, Australia e Giappone) si è riunito venerdì per discutere, oltre che della necessità di incentivare l’industria farmaceutica indiana come alternativa all’offensiva cinese nella “geopolitica dei vaccini”, dei numerosi esempi di aggressione cinese che minerebbero la stabilità dell’alleanza.
Jake Sullivan, consigliere della sicurezza nazionale statunitense, presente all’incontro, ha puntualizzato ai giornalisti che vi sono state discussioni in merito alle operazioni di Pechino intorno alle isole Senkaku (contese con il Giappone), alle tensioni commerciali con l’Australia, alle tensioni nella linea di confine con l’India (LAC) ed è stato posto l’accento sugli attacchi informatici contro obiettivi statunitensi (Microsoft Exchange e SolarWinds), ma anche contro obbiettivi informatici di India, Giappone e Australia.
Esattamente su questo punto Jens Stoltelnerg, ancora in riferimento alla Cina, ha aggiunto “che l’articolo 5 vale sempre, cioè l’obbligo d’intervento di tutti gli alleati qualora un paese membro venga aggredito” e precisa “vale anche per i cyber-attacchi”, nonostante per i casi citati non sia stata fornita alcuna prova in merito alla loro origine, talvolta ricondotta dai media a Russia o Cina, secondo la convenienza del momento.
“La Cina ha il secondo maggiore bilancio militare del mondo”, ha proseguito, “gli Stati Uniti hanno un problema di stazza, di dimensione, nei confronti della Cina è essenziale che possano contare sugli alleati. Per prevenire un conflitto che sarebbe devastante, è indispensabile mandare messaggi chiari, sgomberare il campo da ogni possibile errore di calcolo”.
È presto detto il significato dell’incontro intercorso fra le quattro “forze democratiche” del Pacifico: bisogna rinsaldare l’alleanza a livello militare per preparare il campo di battaglia contro la crescente egemonia economica e militare del dragone; le dispute territoriali e commerciali tra la Cina ed i paesi vicini sono dunque divenute il migliore pretesto per alimentare le colossali spese belliche già programmate per i prossimi anni al fine di armare la regione Indo-Pacifica.
Un crescente interesse strategico già segnalato dal South China Sea Strategic Situation Probing Initiative (SCSPI), che ha pubblicato un rapporto sulle attività statunitensi nel Mar Cinese Meridionale, segnalando un notevole incremento delle manovre militari negli ultimi 3 anni. Per il solo anno 2020 secondo lo SCSPI, gli Stati Uniti hanno inviato in quelle acque portaerei, gruppi anfibi pronti, sottomarini a propulsione nucleare e bombardieri B-52H e B-1B.
Ma è per i prossimi anni che la politica delle cannoniere statunitense prevede uno spaventoso incremento, senza precedenti, di mezzi militari ed armi: l’ammiraglio Phil Davidson, a capo del Comando Indo-Pacifico degli Stati uniti, ha richiesto al Congresso oltre 27 miliardi di dollari per installare un complesso di batterie missilistiche contro la Cina entro i prossimi 6 anni. E per il solo anno 2022 è prevista la messa in opera di un sistema Aegis Ashore a Guam, un sistema radar ad alta frequenza da 197 milioni di dollari a Palau e per finire, missili ad alta precisione per il supporto delle truppe fino a distanze di 500 km per un valore di 3,3 miliardi di dollari. Il comando di Davidson sarà presto sostituito con la nomina dell'ammiraglio John Aquilino alla guida dell’INDOPACOM e del vice amministratore Samuel Paparo alla guida della flotta del Pacifico. Una riorganizzazione stabilita mentre il Pentagono sta investendo miliardi di dollari in nuovi sistemi d'arma: il 10 marzo l’aeronautica militare americana ha preso in consegna il primo F-15EX dalla Boeing, aereo di quinta generazione in grado di trasportare armi ipersoniche, parte di un programma da 23 miliardi di dollari per 144 aerei; lo scorso mese è stato firmato un contratto da 144 milioni di dollari che comprende l’acquisto di 137 missili anti-nave LRASM, attrezzature di supporto, ingegneria dei sistemi, logistica e supporto per la formazione, come riportato in una nota dal portavoce di Lockheed Martin Joe Monaghen.
L’LRASM ha una portata pubblicata di circa 300 miglia nautiche, è resistente agli inceppamenti e progettato per localizzare bersagli con sensori a bordo piuttosto che fare affidamento sulla guida di un'altra fonte come i sensori di un drone o un'altra nave ed è molto difficile da rivelare.
L’obbiettivo degli strateghi del Pentagono consiste nel disporre di cinque missili per ogni nave da guerra cinese entro il 2025; una data molto vicina a quella profetizzata dal “Providing For The Common Defense”, documento pubblicato nel 2018 da una commissione bipartisan del senato, nel quale si prospettava per l’anno 2024, “un attacco di sorpresa contro Taiwan” da parte cinese, proponendo un aumento delle spese militari nella misura del 3/5 % annuo, nei fatti pienamente realizzato.
Anche la fornitura di armi ed il sostegno politico alle mire indipendentiste di Taiwan si sta realizzando pienamente, minando all’equilibrio che per decenni ha visto coesistere due sistemi in un’unica Cina.
Le paventate minacce cinesi, che rimbalzano e riecheggiano nel confuso etere dell’informazione, sono oramai richiamate quotidianamente, senza che mai venga altresì evidenziato che ad alimentare, preparare e premeditare le fiamme del futuro casus-belli ci sta pensando un attore globale in declino, i cui interessi strategici sono ben lontani dalle prospettive di pace e stabilità della regione.

Foto © DVIDSHUB

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