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Un vento forte sta soffiando in Europa; un vento atlantico che con maggior potenza la sta allontanando dal resto del mondo, isolandola progressivamente al fine di difendere gli interessi geostrategici del vecchio alleato d’oltreoceano.
Ed ecco che il “Comprehensive Agreement on Investment” (CAI), un accordo bilaterale per gli investimenti siglato il 30 dicembre scorso, che garantirebbe agli investitori europei l’accesso a diversi settori del mercato cinese, rischia di non essere ratificato dagli europarlamentari sulla base dell’accusa che Pechino violi i diritti umani. Non era un caso che il presidente Joe Biden avesse già fatto pressioni sull'Unione Europea a dicembre affinché riconsiderasse le sue “eccessive” marce di avvicinamento alla Cina, a cominciare dall'accordo sugli investimenti in discussione. Preoccupazione dunque per le repressioni nella regione autonoma dello Xinjiang uiguro o per le rivendicazioni nelle aree popolate da tibetani?
A chiarire il disappunto statunitense ci aveva pensato il rapporto del “progetto Nato 2030”, presentato durante una riunione dei ministri degli Affari Esteri il 1° dicembre 2020 da esperti nominati dallo stesso segretario generale dell’alleanza Jens Stoltenberg.
Nel documento la Cina è stata descritta come una potenziale minaccia militare non solo per gli Stati Uniti ma anche per l’Europa, evocando la possibilità che proietti la sua potenza militare non solo sull’area euro-atlantica ma anche a livello globale.
La NATO, secondo gli autori, “deve espandere gli sforzi per valutare le implicazioni dello sviluppo tecnologico della Cina, monitorando e difendendosi da qualsiasi attività cinese che possa avere un impatto sulla difesa collettiva, la prontezza militare o la resilienza dell’Alleanza”.
Ma la minaccia non si ferma al settore militare: sul fronte economico, il grande pericolo per l’alleanza è rappresentato dalla Nuova Via della Seta, il progetto strategico di miglioramento delle infrastrutture commerciali in Eurasia, e la piattaforma 17+1, l’iniziativa tramite la quale la Cina promuove attività di business e investimenti con i Paesi dell’Europa orientale.

Il vero pericolo: il primato economico della Cina sugli Stati Uniti
Non era un mistero che il “dragone” sarebbe divenuto una minaccia per gli interessi dell’occidente già in tempi insospettabili. Nel documento del PNAC (Project for the New American Century), pubblicato nel 1997 e che vide tra i fondatori, personaggi come Dick Cheney e Donald Rumsfeld, si era delineato uno scenario in cui, nel 2017, la Cina sarebbe divenuta “la principale minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America”.
Non si trattava certo astratte proiezioni deliranti; nel luglio dello scorso anno, persino il capo dell’FBI Christopher Wray ha ammesso che “in termini economici e tecnici è già un concorrente alla pari degli Stati Uniti e un pari concorrente in un tipo di mondo molto diverso”.
Avevano previsto che sarebbero finiti i tempi di dominio delle multinazionali occidentali, che in territorio cinese sono state favorite dalle loro disposizioni esentasse e dai lavoratori qualificati a basso salario.
Quegli stessi salari avrebbero subito un’impennata nel corso degli anni: uno studio del Boston Consulting Group ha mostrato, infatti, come nel 2000 il salario di un lavoratore cinese fosse circa il 3 per cento di quello di un lavoratore americano. Una percentuale è salita al 4% nel 2005 e al 9% nel 2010.
La Cina ha superato la crisi del 2008, già nel 2012 ha raggiunto i 3,87 trilioni di dollari di importazioni superando il primato degli gli Stati Uniti, che nel 2019 persero anche la supremazia sui brevetti depositati: 58.990 brevetti cinesi contro i 57.840 statunitensi secondo l’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale. Primato che ha mantenuto invariato nel 2020, nonostante la pandemia; registrando una crescita degli stessi pari al 16,1%, con un totale di 68.720 richieste.
Nonostante le politiche Trumpiane vagamente protezioniste, ancora oggi molti prodotti statunitensi sono fabbricati in Cina, con la quale gli Stati uniti registrano nel commercio bilaterale un deficit di oltre 300 miliardi di dollari, mentre gli investimenti cinesi negli Usa a scopi produttivi sono calati del 90% in tre anni (da 46,5 a 4,8 miliardi di dollari). Allo stesso tempo la quota del debito statunitense di oltre 27.000 miliardi di dollari, posseduta dalla Cina, ha visto contrarsi dal 14% nel 2011, al 5% nel 2020; stessa sorte per la quota in dollari delle riserve valutarie cinesi, calata in quattro anni dal 79% al 59%.
Cifre che per la stabilità economica degli Stati Uniti, (il paese più indebitato al mondo che regge la sua sopravvivenza sugli investimenti stranieri e sul dominio del dollaro come riserva valutaria) rappresentano un vero uragano possibilmente catastrofico. Ancor più drammaticamente pericoloso per le sorti del mondo se vengono rievocate le parole di Ronald Regan: “Il tenore di vita degli americani non è negoziabile”.

Washington si prepara alla guerra
A richiamare queste constatazioni sibilline, riportandole ad una realtà che sempre più vuole imporre il tenore di vita americano a qualunque costo, compreso l’Armageddon nucleare, ci ha pensato l’ammiraglio Phil Davidson, a capo del Comando Indo-Pacifico degli Stati uniti, che ha richiesto al Congresso oltre 27 miliardi di dollari in cinque anni, per installare un complesso di batterie missilistiche contro la Cina.
Una mossa a cui fa eco il segretario di stato Antony Blinken, che al senato ha ribadito: “Dobbiamo cominciare ad affrontare la Cina da una posizione di forza”.
La più volte evocata difesa di Taiwan (armata e sostenuta dagli Americani nelle suoi propositi separatisti) rispetto ad una possibile invasione del dragone, rappresenta dunque solo un pretesto per accerchiare ancor di più l’odierno primo rivale economico degli Stati Uniti, che già a partire dal prossimo anno si vedrà probabilmente accerchiato da un sistema di difesa missilistica Aegis Ashore a Guam, un sistema radar ad alta frequenza da 197 milioni di dollari a Palau e per finire, da missili ad alta precisione per il sopporto delle truppe fino a distanze di 500 km per un valore di 3,3 miliardi di dollari. In pacchetto già programmato al congresso per il 2022.
"Penso che la minaccia si manifesti durante questo decennio, anzi nei prossimi sei anni", ha aggiunto Davidson, precisando che in caso di un’invasione cinese a Taiwan, “l'inazione danneggerebbe lo status internazionale degli Stati Uniti e la sua credibilità come partner della difesa”.
Come per il Pnac, quando la minaccia era già evocata con largo preavviso, ora le modalità della sua neutralizzazione sono state decise anzitempo. Gli europei, i politici, i cittadini rimarranno ancora a guardare inerti per i prossimi sei anni?

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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