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Ma rassicura sugli armamenti per difendersi dall'Iran

La guerra in Yemen deve finire”. Ad annunciarlo al Dipartimento di Stato è Joe Biden, in merito al conflitto scatenatosi nella regione dopo che le forze Houthi alleate dell'Iran presero il controllo della capitale dello Sana, nell'autunno del 2014.
Un cambio di potere che spinse i sauditi ed i loro alleati del Golfo a perseguire una pesante campagna di bombardamenti con l'obiettivo di cacciare i ribelli Houthi dal Nord dello Yemen. Un conflitto che perdura tutt’ora e che coinvolse anche l’acquisto di armi di fabbricazione americana, responsabili dell’uccisione o il ferimento (come denunciato anche da Save the Children), di migliaia di bambini.
Biden ha dunque esortato a porre fine a quella che definisce una "catastrofe umanitaria e strategica", ordinando la fine del supporto americano all'offensiva saudita, soprattutto logistico e di condivisione dei dati e di addestramento, e la sospensione della vendita di armamenti a Ryad, fra cui le famigerate munizioni di precisione.
La nova amministrazione dunque, non sostiene più che il supporto americano stia aiutando a portare la guerra a una conclusione; Biden ha tuttavia chiarito che mentre cercava di “costringere i sauditi a prendere finalmente in considerazione l'enorme bilancio umano del loro intervento nello Yemen”, non intendeva lasciarli soli ad affrontare un Iran ostile, assicurando che proseguiranno le vendite di armi difensive a Ryad progettate per neutralizzare missili, droni e attacchi informatici da Teheran.
"Il Regno dell'Arabia Saudita accoglie con favore l'impegno degli Stati Uniti, espresso nel discorso del presidente Biden, a cooperare con il Regno nella difesa della sua sicurezza e del suo territorio". Ha scritto nel suo profilo Twitter il principe Faisal bin Farhan al Saud, ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita, lasciando evidenziare come l’apparente presa di distanza dalle posizioni di Ryad rispetto alla guerra dello Yemen, si risolve in una concreta intesa nell’identificazione della “minaccia iraniana”.
I famosi "accordi di Abramo", benedetti da Donald Trump, vedono ora arabi ed israeliani coalizzati contro la potenza persiana e le provocazioni atte a far pressione sull’amministrazione Biden per un conflitto su larga scala sono dietro l’angolo.
L’uccisione dello scienziato nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh da parte del Mossad, come confermato al New York Times da un funzionario americano e altri due dirigenti dell'intelligence, avrebbe potuto certamente accrescere la percezione di “minaccia”, a seguito di una risposta militare di Teheran all’attentato.
Anche le timide aperture di distensione in merito all’accordo sul nucleare sono già impantanate e ambo gli schieramenti si aspettano una prima mossa dalla controparte. Mentre gli Stati Uniti chiedono la sospensione del programma di arricchimento dell’uranio, il ministro degli esteri Mohammed Zarif in persona, si dice pronto a rispettare i suoi "impegni volontari presi nel Jcpoa a patto che gli Stati Uniti revochino le sanzioni e tornino nell'accordo stesso”.
Sanzioni che assieme all’emergenza Covid stanno affossando l’economia del paese: il rial è collassato sul mercato nero a oltre 240.000 contro il dollaro, la bilancia commerciale soffre i mancati introiti derivanti dall’esportazione di petrolio. In vista delle prossime elezioni, i sondaggi darebbero in testa l’ala conservatrice, quella più riluttante a un accordo con l’America.
Non basteranno dunque i buoni propositi dell’amministrazione amministrazione Biden sulla guerra in Yemen, a pacificare la regione; se questa condotta si risolve nel concentrare le risorsi militari al fine di contrastare la “minaccia iraniana”, quelle bombe e quella catastrofe umanitaria tanto denunciata al dipartimento di stato si trasferirà presto in altri luoghi con risvolti enormemente più drammatici.

Foto © Mr. Ibrahem

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