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La vicepresidente spiega la lezione appresa nei tribunali negli anni da procuratore. “Diseguaglianza e iniquità portano ingiustizia”

Nessuna delle esperienze avrebbe ispirato la mia visione politica più del decennio che avevo trascorso in prima linea come pubblico ministero. Il tribunale avrebbe dovuto rappresentare l’epicentro della giustizia, ma spesso si rivelava un epicentro d’ingiustizia.
Avevo frequentato le aule abbastanza a lungo da vedere le vittime di violenza riapparire anni dopo come responsabili, a loro volta, di crimini violenti.
Lavoravo con bambini cresciuti in quartieri così vessati dal crimine che registravano percentuali d’incidenza del disturbo da stress post-traumatico alte come quelle dei bambini delle zone di guerra.
Come sostituto procuratore, il mio lavoro era far condannare coloro che violavano le leggi. Ma parte della responsabilità non ricadeva forse anche sul sistema e sulle comunità di origine?
Per me, essere un procuratore progressista significa capire e intervenire su questa dicotomia.
Significa comprendere che, quando una persona uccide qualcuno, o un bambino viene molestato o una donna violentata, i responsabili meritano di andare incontro a gravi conseguenze. Ma significa anche capire che non vi è equità nel sistema giudiziario. Il lavoro di un procuratore progressista consiste nell’occuparsi di coloro che sono trascurati, nell’individuare e affrontare le cause dei crimini e non solo i loro effetti, e nel far luce sulla diseguaglianza e sull’iniquità che portano all’ingiustizia.
Significa riconoscere che non tutti meritano di essere puniti e che ciò di cui molti hanno bisogno è aiuto.
Dobbiamo affrontare il pregiudizio razziale presente nel nostro sistema di giustizia penale. E questo sforzo inizia affermando che le vite delle persone di colore contano. I fatti parlano chiaro: quasi quattro anni dopo che da Ferguson, nel Missouri, ha cominciato a propagarsi il movimento Black Lives Matter, il procuratore generale dello Stato ha riferito che gli automobilisti neri hanno l’85 per cento di probabilità in più di essere fermati dalla polizia stradale rispetto ai bianchi. In tutta la nazione, i neri fanno uso di droghe tanto quanto i bianchi, ma vengono arrestati il doppio delle volte. Inoltre, per la cauzione pagano in media più di tre volte la cifra versata dai bianchi. E per loro è sei volte più probabile essere incarcerati.
Al momento della sentenza, i neri subiscono condanne di circa il 20 per cento più lunghe di quelle inflitte ai bianchi.
La coscienza civile e la solidarietà non bastano.
Dobbiamo accettare delle dure verità sul razzismo sistemico che ha permesso che questo accadesse. E tradurre quella comprensione in politiche che possano cambiare le cose. Impegnarsi nella battaglia per i diritti civili e la giustizia sociale non è facile. Anzi, è tanto difficile quanto importante.
Ma scegliete di essere tra quanti hanno rifiutato di cedere. E quando ci sentiamo frustrati e demotivati per gli ostacoli che ci troviamo davanti, facciamoci portatori delle parole di Constance Baker Motley, prima donna americana di colore a essere nominata giudice federale. «La mancanza d’incoraggiamento non mi ha mai scoraggiato scrisse - anzi l’opposto. Ero il tipo di persona che non si sarebbe mai lasciata abbattere».

Il libro
“Le nostre verità” è il titolo dell’autobiografia di Harris edita da La Nave di Teseo. Da domani in libreria.
I ricordi Harris il giorno della sua laurea in Legge con la sua maestra delle elementari, la signora Wilson.
“È stata lei a coltivare in me la voglia di apprendere”, scrive.

Tratto da: La Repubblica del 27 Gennaio 2021

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