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Almeno 600 morti a Mai-Kadra, accuse reciproche fra tigrini e amhara Amnesty chiede un’inchiesta indipendente. Fosse comuni a Humera

Nairobi. Erano da poco passate le tre del pomeriggio del 9 novembre, quando la morte si è affacciata nel quartiere Gimb di Mai-Kadra, nell’estremo nord dell’Etiopia, a due passi dal confine sudanese. La morte, raccontano i testimoni, aveva le sembianze dei giovani del luogo, uniti in gruppi di una trentina ciascuno, e guidati da un paio di miliziani tigrini in uniforme. Questi ultimi avevano armi da fuoco, ma non le hanno usate. Per il lavoro che doveva essere compiuto bastavano i machete e le asce portate dai ragazzi, in un terrificante deja-vu del genocidio del Ruanda.
Il massacro è durato fino all’alba, ha ricostruito Amnesty International sulla base dei racconti di chi è sopravvissuto. Il mattino del 10 ha visto per terra cadaveri a centinaia, in grande prevalenza di etnia Amhara. Erano “saluk”, cioè lavoratori stagionali, arrivati a Mai-Kadra come ogni anno per la raccolta del sesamo e del miglio. Erano lì per garantire la sopravvivenza alle famiglie, senza preoccuparsi che la città fosse storicamente contesa dalle due etnie, e che spesso, dicono le denunce raccolte da Amnesty, le autorità tigrine abusassero dei loro poteri, imponendo carcere e multe illegali a chi parlava in amarico.
Da qui in poi, la ricostruzione diventa incerta. Amnesty si limita a sottolineare che le testimonianze raccolte puntano il dito sui giovani locali legati al Fronte popolare di liberazione del Tigrai. Il Tplf respinge le accuse con sdegno. La Commissione etiope per i diritti umani (Ehrc), legata al governo federale, conferma le responsabilità tigrine e individua i responsabili nei militanti di un gruppuscolo denominato “Samri”, e considerato vicino al Tplf. Poi si spinge a un primo bilancio: i morti sono almeno 600. La denuncia dell’Ehrc è servita al primo ministro Abiy Ahmed per sottolineare le atrocità commesse dai tigrini.
Poi però nella cappa di silenzio che isola il Tigrai, con la stampa di tutto il mondo bloccata ai confini dell’Etiopia, si è aperta una piccola falla. Il corrispondente dell’Agence France Presse all’Unione africana, che fa base ad Addis Abeba, è riuscito ad arrivare nella città della strage. Ha raccontato di file di tombe fresche, di corpi abbandonati al sole in attesa di sepoltura. Ma soprattutto ha raccolto testimonianze. E accanto alle denunce degli Amhara sopravvissuti, raccolte dai letti d’ospedale, si sono affiancate quelle dei profughi in fuga verso il Sudan. Il quadro si è confuso: fra i fuggiaschi numerose famiglie sono tigrine, e raccontano di attacchi delle milizie Amhara e delle truppe federali.
Fisseha Tekle, ricercatore di Amnesty, sottolinea che entrambe le versioni sono plausibili: dopo il primo massacro ci sono state rappresaglie feroci. «Serve un’indagine condotta da un corpo internazionale indipendente», dice. Lo stesso chiede Human Rights Watch, attraverso la rappresentante Laetitia Bader. È presto per parlare di coinvolgimento del Tribunale dell’Onu: l’Etiopia comunque non riconosce i giudici dell’Aja, dunque servirebbe una decisione del Consiglio di Sicurezza. Nel frattempo, dal blackout del Tigrai filtrano altri allarmi, si parla di civili uccisi ad Adigrat come a Humera, dove ieri sono state scoperte 70 sepolture fresche, fra cui fosse comuni. Sollevata la cortina della censura, insomma, si scopre l’orrore senza fine della pulizia etnica.

Tratto da: La Repubblica del 30 Novembre 2020

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