di Roberto Sommella*
L'Unione Europea può dissolversi una qualsiasi domenica d'estate e non sappiamo ancora quale sia la sua vera faccia. Quella della Grecia? Scampata finalmente alla Troika, dovrà pagare interessi su un prestito di 274 miliardi ben oltre il 2060 e dopo aver cambiato quattro governi e fatto 450 riforme, il paese di Tsipras ha privatizzato tutto, persino le terme, restando più povero del 2010. Consolazione: ha ancora qualche euro in tasca.
Oppure la faccia è quella della Germania? Il paese di una mai così debole Angela Merkel, dall'Ue e dalla moneta unica ha avuto quasi tutto. Si è ripagata i costi mostruosi della riunificazione, ha incassato quasi 1.000 miliardi di capitali in arrivo grazie allo spread, dal deprecato Quantitative Easing ha ottenuto per la sua Bundesbank utili aggiuntivi per 2 miliardi di euro. Il suo surplus vola incontrastato ben sopra il 7% del Pil e persino dal salvataggio greco ha guadagnato la bellezza di 2,9 miliardi di interessi.
O ancora, il vero profilo dell'Unione è quello dei paesi dell'Est, primi beneficiati netti dal dare-avere del bilancio comunitario, con la Polonia in testa quest'anno o la piccola Ungheria, che da una parte vieta le richieste d'asilo in Costituzione e dall'altra per 300.000 euro lascia entrare nel paese persone facoltose attratte solo dal mercato unico e non certo dai vecchi fasti del socialismo reale?
Sopravvissuta in dieci anni a crisi di ogni genere, ma solo finanziarie, l'Ue rischia di restare senza un volto, come le banconote coniate dalla Bce. Perché stavolta sono le persone a decidere il suo destino, quelle che sono dentro i suoi confini e quelle che spingono per entrarvi.
A ridosso di un ennesimo vertice sull'immigrazione, inconcludente e mutilato dal boicottaggio dei paesi del gruppo di Visegrad, e in prossimità di quello di fine giugno, il tema dell'accoglienza dei migranti può riuscire in ciò in cui ha fallito la crisi finanziaria: far tornare tutti indietro al 1957. Per alcuni può essere un bene, francamente non si può essere d'accordo.
I giorni, le ore, che l'Ue ha davanti in questa estate incerta, sono quindi quelle più difficili della sua storia recente, perché sulla questione dei rifugiati e dei migranti economici si può consumare lo strappo finale. Questa volta in gioco non c'è qualche regola contabile o il Fiscal Compact, ma argomenti cruciali quali l'identità di una nazione, la difesa dei suoi confini, i rapporti di cittadinanza. Se nessuno mette più in discussione l'euro, che pure ha ancora i suoi problemi di costituzione, oggi è evidente che non esiste paese che voglia più aprire le sue porte agli stranieri, e persino papa Francesco parla di ingressi in modica quantità.
Per analizzare una situazione che va ben oltre le denunce e le prese di posizione del ministro degli Interni, Matteo Salvini e le reazioni scomposte del Presidente francese Emmanuel Macron, bastano peraltro poche cifre. Sono le percentuali di ricollocamenti dei migranti effettuati rispetto agli accordi presi. I tre paesi che sono andati in rotta di collisione con il governo di Roma sul tema, Germania, Francia e Spagna, che vorrebbero ancora tenderle un trappolone per impedirle di sfoltire gli oltre 120.000 immigrati presenti sul suo territorio, hanno rispettivamente accolto il 37,3%, il 25,1% e il 14,6% dei disperati del mare giunti in Italia e Grecia. E queste quote diventano scandalose se si guarda a Ungheria (0%), Polonia (0%), Repubblica Ceca (0,4%), Slovacchia (1,8%) e Austria (2%), tra poco quest'ultima anche presidente di turno. Se fosse solo questo il problema, basterebbe prendere sanzioni fino al taglio dei contributi europei a chi non accetta le regole che ha sottoscritto.
Ma la questione è più profonda. In un mondo in cui oramai la ricchezza planetaria ha appena superato il valore del Pil mondiale (oltre 70.000 miliardi di dollari), si cercano pretesti per giustificare le disuguaglianze crescenti. Oggi i migranti e l'Europa, domani magari il primo paese che si mette di traverso.
Non è quindi il momento di trincerarsi su posizioni costituite per aspettare l'Euxit finale (e chi scrive lo sostiene da tempo e non solo dal saggio omonimo). È il momento di ribaltare il ragionamento sui guasti di questa confederazione senza volto e di vedere invece cosa si perderebbe dalla fine dell'Unione.
Innanzitutto la libertà di movimento, dei capitali e delle persone; le moltissime opportunità che milioni di giovani possono cogliere fuori dal loro paese di origine; i benefici del mercato più ricco del mondo e dei costi abbattuti per i trasporti aerei, ferroviari e per la connessione digitale (il free roaming); il rispetto dei diritti umani, da cui discendono molte scelte, anche di investimento; la tutela di 500 milioni di consumatori, i più ricchi e assistiti del pianeta; la moneta unica, ormai valuta-rifugio per le principali banche centrali, sinonimo di forza in un'architettura debole, il cui addio, solo per l'Italia, significherebbe anche l'uscita dall'Unione Europea, la ridenominazione di due terzi del debito pubblico e il pagamento di partite correnti finanziarie.
Infine, l'addio ad un'idea di pace, garantita comunque, dopo oltre quattro secoli di guerre, seppur con alcune eccezioni come in Kosovo e in Crimea, ma ben consapevoli che senza l'Unione nel 2015 magari sul fronte orientale sarebbe scoppiato un conflitto all'apice della crisi dei rifugiati.
Si può discutere su questi punti, criticarli, fare delle proposte di riforma, ma senza ideologie preconcette o, peggio, varcando la soglia del buon senso, intimidendo chi non concorda con i nuovi nazionalisti.
Non c'è problema di grande portata, dalla difesa dei confini alla gestione dell'accoglienza dei migranti, dalla lotta agli effetti distorti della globalizzazione alla repressione del terrorismo, che non necessiti una risposta comune e non nazionale. L'Europa unita, pur con tutte le sue imperfezioni da correggere, ha lo stesso peso geopolitico della Russia, della Cina, degli Stati Uniti.
Divisa, diventa un loro satellite, ad esclusione della Germania, l'unica ad aver lavorato sempre per sé stessa come se non avesse mai abbandonato il marco. L'unica che ci ha guadagnato comunque e che non subirà contraccolpi, perché vive di fatto già di accordi bilaterali quando non esistono quelli comunitari.
Anche solo questo particolare dovrebbe far riflettere molto: sicuri che si vuole tornare al passato?
*Direttore Relazioni Esterne Antitrust, fondatore de La Nuova Europa
Tratto da: huffingtonpost.it
Foto © Imagoeconomica
Se l'Unione muore ci guadagna solo la Germania
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