di Lorenzo Baldo
“Mia madre è stata assassinata perché si è trovata in mezzo tra la legge e coloro che cercano di violarla, come molti altri giornalisti coraggiosi. Ma è stata colpita anche perché era l'unica a farlo. Ecco cosa accade quando le istituzioni dello Stato sono incapaci: l'ultima persona che rimane in piedi spesso è un giornalista. E quindi è la prima persona che deve morire”. Le parole di Matthew Caruana Galizia rimbalzano forti nella mia mente. Sono passate poche ore dal brutale assassinio della giornalista Daphne Caruana Galizia. Penso al significato della nostra professione in un periodo storico tra i più bui. Penso a chi come lei muore per aver fatto il proprio dovere e chi muore ogni giorno schiacciato da un ingranaggio infernale che stritola lentamente chi ha a cuore questo mestiere. Tornano alla mente gli undici giornalisti assassinati in Italia: Beppe Alfano, Carlo Casalegno, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Giancarlo Siani, Giovanni Spampinato e Walter Tobagi, nove dei quali per mano della criminalità organizzata. Ma ci sono anche i colleghi uccisi all'estero in altre circostanze come Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, e tanti altri trucidati da quello che viene definito “terrorismo internazionale”. Ognuno di loro aveva una storia da raccontare. Storie possibilmente scomode, che davano fastidio e che dovevano essere cancellate. E’ come se un filo rosso unisse queste vicende da un continente all’altro. Dello stesso tenore la storia di Pablo Medina, il giornalista paraguaiano, che collaborava con Antimafia Duemila, assassinato il 16 ottobre 2014 assieme alla sua assistente Antonia Almada lungo una strada rurale di Villa Ygatimí, nel dipartimento di Canindeyú, al confine con il Brasile. Fin da subito il responso è stato chiaro: duplice omicidio di matrice narcos. Quegli stessi narcos contro i quali Medina puntava il dito da diversi anni attraverso il suo instancabile lavoro al quotidiano ABC Color. Ma era solo una verità parziale. Chi è che ha armato la mano degli esecutori di quel massacro? Anche in questo caso a stare nell’ombra sono sempre quegli interessi criminali che appartengono ad un sistema di potere esterno al narcotraffico. Al punto di coinvolgere l’ex sindaco di Ypejhú, Vilmar "Neneco" Acosta, accusato di essere il principale mandante dell’omicidio Medina-Almada. Tre anni dopo, proprio nel giorno dell’anniversario del duplice omicidio doveva iniziare il processo contro lo stesso "Neneco" Acosta, poi però si è saputo che è stato rinviato. Una strada lunga e tortuosa attende Dyrsen Medina, la figlia trentenne del giornalista e tutta la sua famiglia, per avere finalmente giustizia. Ma almeno è stato scalfito quello scudo di impunità che proteggeva Acosta. Uno scudo che continua a proteggere i mandanti politici (e non solo) di tanti omicidi di giornalisti e fotoreporter nel mondo. Come dare torto a Matthew Caruana Galizia quando parla del proprio Paese definendolo “uno Stato di mafia” dove “puoi anche saltare in aria solo perché eserciti i tuoi diritti basilari?”. “Come ci siamo arrivati?”, si domanda infine il figlio della giornalista assassinata. A quella domanda però non abbiamo la forza per replicare. Troppe stragi impunite costellano la storia della nostra fragile democrazia. Troppe “ragioni di Stato” si celano dietro stragi e omicidi “eccellenti”. Troppe trattative tra Stato e mafia sono state sancite sul sangue di vittime innocenti. E quando a non volere la verità è proprio quello Stato per il quale tanti martiri hanno dato la vita, non resta che continuare a fare questo mestiere con maggiore determinazione sostenendo con forza la libera informazione. Per Daphne, per Pablo, per Ilaria e per tutti i caduti in questa guerra che ci chiedono di continuare a raccontarla.
Tratto da: Imprimatur - L'attualità
Foto © Scott Peterson / Getty Images
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