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Nuovi accordi stanno riscrivendo la geopolitica del Medio Oriente. Il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), il gruppo militante in conflitto con lo Stato turco da oltre 40 anni, in una mossa storica, ha dichiarato lo scioglimento, con importanti implicazioni politiche e di sicurezza per la regione.
Una decisione che fa seguito all’appello al disarmo dello storico leader, Abdullah Öcalan, accolta dai vertici della formazione in nome di un dialogo con la Turchia che porti all’avvio di un processo di pacificazione.  Secondo l’agenzia stampa filo-curda ANF, il PKK ha infino deciso di "porre fine alla lotta armata", come annunciato nella dichiarazione conclusiva di un congresso tenuto dai militanti.
Positive le reazioni all’interno dell’AkParti, il partito del presidente Erdogan. Il portavoce del partito, Ömer Çelik, ha definito la scelta “un punto di svolta”, sottolineando l'importanza della sua concreta attuazione. “L’effettiva applicazione della decisione di scioglimento e dell’abbandono della lotta armata, che porterà alla chiusura di tutti i rami e delle strutture illegali legate al PKK, rappresenta un momento cruciale”, ha dichiarato Çelik, assicurando che “il processo sarà seguito con estrema attenzione dalle istituzioni statali sul campo”. Il presidente Erdogan, ha aggiunto, illustrerà personalmente i progressi raggiunti nelle varie fasi.
Si tratta di una svolta potrebbe allentare le tensioni tra la Turchia, membro della NATO, e gli Stati Uniti sugli accordi di condivisione del potere in Siria. Ma “apre anche la possibilità che Erdoğan possa staccare gli elettori curdi dall'opposizione – e senza dubbio anche questa è stata una considerazione del governo", ha dichiarato al Financial Times Aslı Aydıntaşbaş, giornalista turca della Brookings Institution di Washington.
Per anni, l’esercito turco ha condotto una campagna di controinsurrezione particolarmente efficace contro il PKK, facendo largo uso di droni. Questa strategia ha progressivamente spinto i militanti fuori dai confini nazionali, costringendoli a rifugiarsi in Iraq e in Siria.
La crisi siriana, e in particolare il crollo del regime di Bashar al-Assad, ha però creato un nuovo contesto di incertezza, soprattutto per le Forze Democratiche Siriane (SDF), un gruppo a guida curda con legami con il PKK e sostenuto militarmente dagli Stati Uniti. Le SDF, oltre a essersi opposte ad Assad, avevano il compito di sorvegliare le prigioni che ospitavano migliaia di combattenti dell’Isis.
In un processo di riallineamento politico sostenuto dal leader curdo Abdullah Öcalan e accolto con favore da Ankara, a marzo le SDF hanno raggiunto un’intesa con il nuovo governo siriano. L’accordo prevede la restituzione a Damasco del controllo delle istituzioni statali nelle aree della Siria nordorientale precedentemente amministrate dalle SDF.
In parallelo, la Turchia ha manifestato la disponibilità ad assumere un ruolo diretto nelle operazioni antiterrorismo contro l’Isis, proponendo una collaborazione trilaterale con Siria, Iraq e Giordania. Intanto, fonti ufficiali statunitensi hanno fatto sapere che Washington intende mantenere, almeno per ora, la sua presenza militare nella Siria nordorientale, con un contingente di circa 900 soldati.

Foto © Imagoeconomica

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