Washington Post: l’errore di Assad è stato rifiutare accordi con la Turchia. Orsini: il cambio di regime peggiora più la posizione Usa che quella di Mosca

Una folla esultante riempie i sobborghi di Jermana, a una decina di chilometri da Damasco, dove l'eco di un vecchio potere si perde oramai nel vuoto siderale. La statua di Hafiz al-Assad, padre dell’attuale presidente Bashar, viene abbattuta tra la polvere, i disordini dei manifestanti in festa e un cielo terso sullo sfondo. È la fine di un'era durata 54 anni, da quando nel 1970 lo stesso Hafiz prese il controllo del Paese attraverso un colpo di stato noto come “movimento correttivo”. Fu l'inizio di un regime basato sul controllo delle minoranze, in particolare quella alawita, e su feroci repressioni, come dimostrarono i massacri di Hama e Aleppo (1979-1982). Alla morte di Hafiz nel 2000, il potere passò, appunto a Bashar al Assad che fin dai primi anni, rispose alle richieste di riforme con arresti e repressioni, mantenendo un controllo autoritario sul Paese.
Un sistema controverso, quello del leader del partito Ba'th, ma che divenne negli ultimi anni fin troppo scomodo per l'impero occidentale che, attraverso una sanguinosa guerra per procura, avrebbe trasformato il Paese in una polveriera. Nel 2011, la Siria aveva firmato con Iran e Iraq un accordo per un gasdotto strategico che avrebbe collegato il giacimento iraniano di South Pars al Mediterraneo, rendendo il Paese un hub energetico e ponendolo in competizione con il Qatar-Turkey Pipeline, sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Europa. Nel 2009 Assad rifiutò il progetto del Qatar, sostenendo gli interessi del suo alleato russo e anche di fronte alle proteste antigovernative scoppiate 13 anni fa, non accettò le offerte di aiuto economico dai Paesi del Golfo in cambio di un allontanamento dall’Iran.
Ma la destabilizzazione del regime siriano sembrava pianificata da anni, come indicato da documenti del Pentagono e dichiarazioni di Wesley Clark, ex comandante NATO, che nel 2007 rivelò piani statunitensi per colpire diversi Paesi tra cui, appunto, Siria e Iran. La CIA, in collaborazione con Turchia, Arabia Saudita e Qatar, sostenne dunque i gruppi armati antigovernativi fornendo armi e addestramento. Parallelamente, nel 2013 nacque l’ISIS, finanziato indirettamente da alleati statunitensi come Qatar e Arabia Saudita, secondo documenti del Pentagono e mail di Hillary Clinton rivelate da Wikileaks. 
Faceva tutto parte di un programma segreto dell’Intelligence USA, pubblicato nel 2013, chiamato Timber Sycamore, finalizzato a finanziare e armare i cosiddetti "ribelli filo-americani".
Solo l’intervento militare russo in Siria, avviato da Putin il 30 settembre 2015, impedì il progetto della NATO di destabilizzare il governo di Assad, almeno fino ad oggi.  Con i leader di hezbollah decapitati da Israele e Mosca impegnata nella sanguinosa guerra in Ucraina, mentre l'esercito siriano si vedeva ancora fortemente indebolito da oltre un decennio di scontri con i miliziani islamisti, l'occasione di innescare un nuovo tentativo di “regime change” non poteva trovare condizioni più favorevoli.
Una situazione, fra l’altro, aggravata dal crescente malcontento interno, in un Paese dove, secondo le Nazioni Unite, il 90% dei siriani vive sotto la soglia di povertà, mentre la leadership del Paese si era adagiata nella corruzione e nell'opulenza, ormai viziata dall'ombrello militare di Mosca. Indelebili le immagini dell’assalto al palazzo presidenziale a Damasco, dove i ribelli jihadisti entrando nel garage, hanno trovato una fila interminabile di veicoli di lusso, come Ferrari, Lamborghini e Bmw. 


I retroscena precedenti alla caduta

Secondo il Washington Post, l'errore fatale di Assad è stato il rifiuto di stabilire legami con la Turchia, rispedendo al mittente la proposta del presidente Recep Tayyip Erdogan. Ankara voleva normalizzare le relazioni con Damasco in cambio del contenimento delle forze curde e del ritorno di almeno una parte dei milioni di rifugiati siriani fuggiti in Turchia. Dopo i tentativi infruttuosi di stabilire un contatto, le autorità turche hanno fatto altro che approvare il piano dei ribelli di Hayat Tahrir al Sham, secondo quanto riferito da alcune fonti alla Reuters.


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Si è dunque arrivati all'offensiva lampo che in meno di due settimane ha portato le milizie la notte dell'8 dicembre alle porte di Damasco, costringendo Assad ad abbandonare la presidenza e fuggire in Russia, dove gli è stato concesso asilo. In modo previdente, l'ex leader siriano, 5 anni fa aveva già acquistato 19 appartamenti di lusso a Moscow-City.
Al contempo, lo stesso WP, riferisce che alcune settimane fa, gli Stati Uniti, attraverso gli Emirati Arabi Uniti, avevano offerto ad Assad un accordo che avrebbe previsto la revoca delle sanzioni americane in cambio della perdita da parte dell’Iran dell’opportunità di rifornire il gruppo libanese Hezbollah attraverso la Siria. Ad affermarlo è stato l'ex diplomatico siriano Bassam Barabandi, che ha sostenuto i ribelli nei primi giorni dell'offensiva.


Il gioco di Mosca

Il Cremlino, nel frattempo, avrebbe preso tutti i provvedimenti del caso per tutelare i suoi interessi nella regione. Il Ministero degli Esteri russo ha comunicato di essere in dialogo con diversi gruppi dell'opposizione siriana, esortando tutte le parti coinvolte a rinunciare alla violenza e a privilegiare una soluzione politica. Tuttavia, nonostante l'accordo raggiunto, alcuni blogger affiliati al Ministero della Difesa di Mosca hanno espresso profonde preoccupazioni riguardo alla stabilità delle postazioni militari del Cremlino nella regione. Tra questi, il noto blogger Rybar ha descritto la presenza militare russa in Siria come "appesa a un filo". La base di Tartus, considerata strategica da Mosca, rappresenta l'unico punto di riparazione e rifornimento russo nel Mediterraneo, oltre a fungere da snodo essenziale per il trasferimento di contractors militari verso l'Africa.
La mattina dell’8 dicembre, il Ministero degli Esteri russo ha diffuso una nota ufficiale, dichiarando che le due basi militari russe in Siria sono state poste in stato di massima allerta, ma ha escluso la presenza di rischi immediati per la loro sicurezza. “Al momento non esiste alcuna minaccia grave per le nostre strutture”, ha precisato, decretando di fatto, la possibilità di un accordo già intercorso per la loro inviolabilità.


Israele ne approfitta, mentre l’asse iraniano si spezza

Nel frattempo le forze israeliane hanno recentemente intrapreso una significativa avanzata nelle alture del Golan, un territorio riconosciuto a livello internazionale come parte della Siria ma occupato da Israele dal 1967. Tel Aviv ha dichiarato di aver catturato una zona cuscinetto precedentemente sotto controllo siriano, espandendo la propria presenza oltre i confini stabiliti dall’accordo di disimpegno del 1974, mediato dalle Nazioni Unite.
Secondo fonti locali, sono cinque le nuove città siriane occupate: Al-Quneitra, Al-Hamidiyah, Madinat al-Baath, Al-Qahtaniyah e Kham Arnabah. Quest’ultima è particolarmente significativa, poiché si trova al di là della linea di disimpegno stabilita nel 1974.
L’avanzata è stata accompagnata da un’intensa campagna di bombardamenti aerei nel sud della Siria, in particolare nelle province di Daraa ed Es-Suwayda. Raid che hanno interessato infrastrutture strategiche, tra cui postazioni militari e vie di comunicazione cruciali per il collegamento con il Libano.
D’altra parte, l'Iran ha subito una perdita significativa che compromette il suo progetto geopolitico noto come “mezzaluna sciita”. Un piano mirava a creare un corridoio di influenza che si estendesse dal Libano fino allo Yemen, passando attraverso Siria e Iraq, sfruttando le connessioni con gruppi alleati come Hezbollah e le milizie sciite. La caduta del regime alawita di Assad spezza dunque questa catena. Ora, con la possibile ascesa di nuovi attori sunniti, legati o influenzati dalla Turchia, l’Iran rischia di vedere ridotta drasticamente la propria capacità di proiettare potere e sostenere i propri alleati regionali.


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Bashar al Assad © Wikimedia

Al Jolani, il tagliagole moderato nemico dell’Occidente

La presentazione ufficiale del nuovo leader al governo della Siria è piuttosto curiosa: “Aleppo è da sempre un punto di incontro per le civiltà e con una lunga storia di diversità religiose e culturali: rimarrà così”, ha dichiarato Abu Mohammad Al Jolani, leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) che, parlando all’ANSA, assicura che il nuovo governo in Siria non imporrà il velo alle donne, né introdurrà alcuna forma di limitazione alle libertà individuali.
Curioso come la stessa HTS sia classificata come “organizzazione terroristica” da Onu e Stati Uniti.
Le milizie, infatti altro non sono che un’evoluzione di Jabhat al-Nusrah, o “Fronte al-Nusra,” l’ex ramo di al-Qaida in Siria. Sotto la guida di Al Jolani, al-Nusra ha condotto numerosi attacchi terroristici in Siria, colpendo spesso i civili. Tra gli episodi più noti: il rapimento di circa 300 civili curdi presso un checkpoint e la rivendicazione del massacro di 20 residenti nel villaggio druso di Qalb Lawzeh, nella provincia di Idlib.
Paradossalmente, la caduta di Assad rischia di trasformarsi in un boomerang per gli stessi Stati Uniti. Ne è convinto il professore associato alla Luiss, Alessandro Orsini, secondo cui il cambio di regime peggiorerebbe più la posizione dell’Occidente che quella della Russia.
“Putin ha già stretto accordi con i ribelli jihadisti affinché gli interessi russi in Siria siano preservati… Al Jolani (vero nome Ahmed al-Sharaa), è un celebratore dell’attentato contro le Torri Gemelle. Si passa da un regime che odiava l’Occidente a un gruppo di ribelli che odia l’Occidente ancor più grandemente. Il passaggio da un regime anti-occidentale a un altro regime anti-occidentale è costato la distruzione totale di un Paese e lo sterminio di un numero talmente grande di bambini siriani che noi studiosi non siamo più in grado di enumerare”, scrive Orsini su Sicurezza Internazionale.
Nel frattempo è la stessa Bloomberg a lanciare l’allarme sul fatto che la caduta di Bashar al-Assad dopo 24 anni di governo in Siria potrebbe innescare un vuoto di potere pericoloso, evocando scenari simili a quelli seguiti alla caduta di Gheddafi in Libia e Saddam Hussein in Iraq.
"Durante il periodo di transizione è previsto il caos, così come una sanguinosa competizione tra fazioni", ha affermato Bader Al-Saif, professore associato presso l'Università del Kuwait e membro della Western Chatham House. “La Siria non è uno Stato da più di dieci anni. È diviso in enclavi e sfere di influenza in mezzo al declino socio-economico e politico”, ha aggiunto.
Sebbene accolto con entusiasmo da alcuni osservatori occidentali, il regime-change siriano rischia di aggravare la frammentazione della Siria, generando una nuova polveriera di violenza che non potrà che ripercuotersi sul Medio Oriente e il mondo intero.

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