L’organizzazione per i diritti umani B’Tselem denuncia le tecniche di tortura e abusi sistematici contro i detenuti palestinesi
Non è a Guantanamo, né ad Abu Grahib. Oggi l’“inferno” è nelle carceri israeliane. È quanto denuncia il nuovo report dell’organizzazione per i diritti umani B’Tselem intitolato: “Benvenuti all’inferno: Il sistema carcerario israeliano come rete di campi di tortura”.
In 118 pagine, B’Tselem fornisce un'analisi approfondita delle pratiche sistematiche di abuso e tortura perpetrate nelle carceri israeliane contro i prigionieri palestinesi basandosi su testimonianze dirette. Inoltre, svela le dinamiche interne di un sistema che, in modo particolare negli ultimi mesi, ha trasformato una decina di strutture detentive in veri e propri campi di tortura “dedicati agli abusi”, sostenendo che queste pratiche sono il risultato di una politica deliberata e organizzata a livello statale. Dunque, una scelta governativa.
Il rapporto di B'Tselem si concentra, appunto, sugli eventi successivi al 7 ottobre 2023, data che segna l’operazione militare di Hamas alla quale ha fatto seguito l’offensiva da parte di Israele (costata ad oggi oltre 40mila vittime palestinesi solo nella Striscia di Gaza). Stando al documento, questo contesto di guerra ha fornito la giustificazione per un inasprimento delle politiche repressive all'interno del sistema carcerario, con un'escalation di violenze e abusi che si sono tradotti in un deterioramento radicale delle condizioni di detenzione per migliaia di prigionieri palestinesi. Il ministro della Sicurezza nazionale israeliana, l’estremista di destra Itamar Ben Gvir, è stato uno degli artefici principali di questa svolta, utilizzando l'emergenza bellica come pretesto per introdurre cambiamenti normativi e amministrativi che hanno peggiorato drasticamente la vita carceraria. Le sue azioni riflettono una politica più ampia del governo israeliano, che mira in modo deliberato a disumanizzare e reprimere il popolo palestinese attraverso l'uso sistematico della violenza e della tortura.
Il documento si basa sulle testimonianze di 55 palestinesi, provenienti dalla Cisgiordania, dalla Striscia di Gaza e anche dai territori del ’48 (cioè da Israele), arrestati dopo il 7 ottobre. Le loro storie, raccolte attraverso interviste dettagliate - fruibili nel sito di B’Tselem -, offrono una visione diretta delle condizioni disumane nelle carceri israeliane. Tra i detenuti vi sono individui di ogni età e professione: medici, accademici, avvocati, attivisti e persino bambini. Le testimonianze mettono in luce non solo la brutalità fisica e psicologica subita dai detenuti, ma anche la sistematica violazione dei diritti umani e delle convenzioni internazionali. Senza considerare, inoltre, le illegittime motivazioni della detenzione. Migliaia di prigionieri palestinesi, infatti, si trovano nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa.
B’Tselem ha anche osservato che il numero di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane è raddoppiato, arrivando a 9.623 dall’inizio della guerra a Gaza. Quasi 10.000 persone sono state arrestate solo nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est, negli ultimi 10 mesi, e circa 3.000-5.000 sono state prelevate dalla Striscia di Gaza. Circa 10.000 persone, invece, erano ancora imprigionate a luglio: quasi il doppio del numero di detenuti palestinesi prima della guerra, secondo HaMoked, un gruppo per i diritti umani con sede in Israele. Alla fine di marzo 2024, l’Israel Prison Service (IPS) deteneva 3.615 palestinesi in detenzione amministrativa. I palestinesi classificati come “prigionieri di sicurezza” sono spesso lasciati senza accusa né processo, in buona parte a seguito di ordinanze di detenzione amministrativa che possono essere rinnovate a tempo indeterminato di sei mesi in sei mesi.
Tornando al report di B’Tselem, le violazioni descritte includono “frequenti atti di violenza grave e arbitraria; aggressioni sessuali; umiliazione e degradazione; fame deliberata; condizioni igieniche forzate; privazione del sonno; divieto e misure punitive per il culto religioso; confisca di tutti i beni comuni e personali; e negazione di cure mediche adeguate”, si legge.
I prigionieri vengono spesso sottoposti a violenze quotidiane che vanno dalle percosse alla tortura psicologica, con l'obiettivo di annientare la loro resistenza fisica e morale. La privazione del sonno e la negazione di accesso a cure mediche sono tra le pratiche più comuni, mentre le aggressioni sessuali rappresentano uno degli aspetti più oscuri e meno denunciati di questo sistema di repressione.
Le diverse tecniche di tortura utilizzate nelle carceri israeliane includono anche la pratica del "posizionamento dello stress", in cui i prigionieri sono costretti a rimanere in posizioni dolorose per lunghi periodi di tempo, e l'isolamento prolungato, che ha effetti devastanti sulla salute mentale. Un altro metodo comunemente utilizzato è la tortura attraverso la privazione sensoriale, dove i detenuti sono tenuti in celle buie e silenziose per settimane, privati di ogni contatto umano. Queste pratiche, combinate con altre forme di abuso fisico e psicologico, creano un ambiente di terrore costante, progettato per distruggere la volontà dei detenuti. Si tratta di tecniche ideate dalla Cia e utilizzate in passato, tra gli altri, contro alcuni membri di al-Qaeda.
B'Tselem, infine, richiama l'attenzione anche sulla responsabilità della comunità internazionale, troppo spesso pavida e incapace di intervenire in modo efficace per fermare questi abusi. Nonostante le numerose denunce e i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani, le reazioni si sono spesso limitate a dichiarazioni di condanna, senza azioni concrete per fermare la violenza e le violazioni dei diritti umani. Questo silenzio, che l’organizzazione definisce “complice” - ha permesso al sistema carcerario israeliano di continuare a operare impunemente, consolidando una cultura di impunità che si estende ai livelli più alti del governo israeliano.
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