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Sessanta milioni di euro in lingotti e lamine di oro, "quasi tutto comprato al centro orafo Tari' di Marcianise". Con un aggancio, una faccia pulita. A raccontare i suoi 'investimenti', in verbali depositati da poco dai pm dell'Antimafia di Napoli che l'AGI ha potuto visionare, Raffaele Imperiale, uno dei più potenti narcotrafficanti al mondo, a capo di un impero a servizio di camorra e ‘Ndrangheta con rapporti stretti con i cartelli sudamericani, che, tra l'altro, possedeva due Van Gogh rubati nel museo di Amsterdam e viveva fino a pochi mesi fa a Dubai, dove era latitante dal 2010. Il boss a ottobre ha deciso di parlare con la magistratura "perché è una opportunità per cambiare vita e intendo sfruttarla", spiega. Come lui Bruno Carbone, suo braccio destro e vertice di un sistema che lui stesso ha definito tale. "Ho investito in lingotti d'oro. So che a Napoli vendono lamine. I lingotti li ho presi da un'azienda, una fonderia del Nord vicino Venezia, si tratta di una signora di origini marocchine, ho conosciuto lei e il marito tramite un calabrese latitante a Istanbul, con il quale ho fatto affari e che mi doveva dei soldi, circa 500-600mila euro ed è lui che mi ha consegnato dei lingotti", ha raccontato il boss il 25 ottobre scorso. "I contatti al Tari' di Napoli li ho avuti tramite omissis e sono arrivato fino a 40 chili di oro al mese - aggiunge - in realtà 20-25 con il Tari', in quantitativi giornalieri di 3-4 chili al giorno, il resto con Bit".

Porti sicuri e uomini
Un sistema perfetto, che per anni gli ha permesso di diventare il punto di riferimento del narcotraffico internazionale in Europa. Basi logistiche, ovvero "case insospettabili" dislocate in più punti d'Italia. Porti sicuri, "con navi commerciali grandi che fanno tratte intercontinentali" e i "cambisti", uomini di fiducia che giravano soldi e li ripulivano. Raffaele Imperiale ha ricostruito nei minimi dettagli il modus operandi dell'organizzazione da lui creata, che aveva come 'clienti' potenti cosche napoletane e calabresi e in ottimi rapporti con i cartelli sudamericani. "Della logistica e dei rapporti con i gruppi criminali italiani inizialmente si occupava Mario Cerrone, al quale sono poi subentrati Daniele Ursini e Bruno Carbone”,ha spiegato, ammettendo di essere arrivato nel 2010 a Dubai, con 100 milioni di cocaina nascosti a Napoli all'insaputa del clan Amato-Pagano frutto dei suoi 'affari' in Brasile, e da lì di aver usato piattaforme crittografate per gestire i suoi interessi in ogni angolo del mondo. Inizialmente proprio gli Amato-Pagano del quartiere napoletano di Secondigliano "si occupavano della distribuzione sul territorio" della sua droga. Dopo l'ordine della cocaina, "tutto ricadeva sotto la responsabilità di Ursini che curava la gestione della consegna. Contattava direttamente il cliente e annotava il quantitativo consegnato e il nome del cliente. Poi almeno una volta al mese, anche più spesso, la confrontavamo con quella tenuta da me, che tenevo la contabilità globale di tutte le operazioni". Il lavoro era sempre a credito "e più velocemente pagavano i clienti più rapidamente gli facevamo ulteriori forniture. Era un sistema vorticoso in continuo movimento. Il trasporto del denaro avveniva con le macchine 'a sistema', quindi con lo spostamento fisico. La consegna avveniva in un luogo individuato dal cliente, dove di solito ci occupavamo di ritirare noi, poi i nostri soldi venivano spostati in una nostra casa dove il denaro veniva contato e diviso e poi custodito in appositi appoggi". Le ville nella disponibilità dell'organizzazione "erano una decina, appoggi per droga e denaro, in due sicuramente non siete mai riusciti a entrare. In una di quelle in cui siete andati non furono scoperti 250 chili poi smerciati dagli Amato-Pagano", ha raccontato l’ex boss.

Fonte: Agi

Foto: it.depositphotos.com

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