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Prosegue dinanzi alla Corte d'assise d'Appello, presieduta da Bruno Muscolo (a latere, Giuliana Campagna), l'esame del vicequestore della Dia, Michelangelo Di Stefano nell'ambito del processo 'Ndrangheta stragista. Una testimonianza utile per comprendere al meglio il contesto in cui maturarono gli attentati ai carabinieri avvenuti tra la fine del 1993 e l'inizio del 1994 e che costarono la vita agli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo.
Perché quei delitti, così come riconosciuto dai giudici di primo grado che hanno condannato all'ergastolo come mandanti il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, attualmente al 41 bis e fedelissimo di Totò Riina, e Rocco Santo Filippone, legato alla potente cosca calabrese dei Piromalli di Gioia Tauro, vanno inseriti in un contesto di più ampio respiro e di carattere nazionale nell'ambito di un progetto criminale, la cui ideazione e realizzazione è maturata non all'interno delle cosche di 'Ndrangheta, ma attraverso la sinergia, la collaborazione e l'intesa di organizzazioni criminali, che avevano come obiettivo l'attuazione di un piano di destabilizzazione del Paese anche con modalità terroristiche.
Rispondendo alle domande della Procura generale, rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, il teste ha sottolineato come nel corso del tempo vi siano state più riunioni che hanno segnato il corso della storia: non solo quelle di Enna tra il 1991 ed il 1992, ma anche altri summit precedenti come quello del 26 ottobre del 1969, quando un pattuglione della squadra mobile reggina, guidato da Alberto Sabatino e coordinato dal questore Emilio Santillo, sorprese un centinaio di 'ndranghetisti in pieno Aspromonte, a due passi dal Santuario della Madonna della Montagna di Polsi, intenti a discutere la riorganizzazione della criminalità reggina. "Insieme a personaggi della 'Ndrangheta - ha detto Di Stefano - rappresentati dal boss Paolo De Stefano avrebbero partecipato a quella riunione - ma non furono arrestati - il principe Junio Valerio Borghese, il marchese Felice Zerbi, Bruno Di Luia, Stefano Delle Chiaie, o Pierluigi Concutelli (anche se alcuni documenti dimostrerebbero che il giorno prima aveva iniziato la propria detenzione nel carcere di Palermo, ndr), che saranno presenti a Reggio Calabria durante i moti per il capoluogo del 1970". Dunque c'era un collegamento tra gli 'Ndranghetisti ed altri soggetti noti, appartenenti all'eversione nera.
Un'altra riunione segnalata dal teste è quella che si sarebbe tenuta nel 1970 a Catania, di cui ha parlato il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta. A suo dire, a quell'incontro, oltre a lui vi erano anche Masino Buscetta, Pippo Calderone, Giuseppe Di Cristina e Luciano Liggio, allora latitante. Scopo della riunione era discutere se  appoggiare, o meno, il tentativo di golpe di Valerio Borghese, previsto nel dicembre del 1970.
Di Stefano ha anche ricordato le dichiarazioni di Leonardo Messina per cui "Cosa nostra e 'Ndrangheta, da sempre, sono la stessa cosa".
Ed è proprio Messina uno dei soggetti che per primo parlò agli inquirenti delle riunioni di Enna in cui venne decisa la linea stragista.

Falcone e il volo di Stato nel giorno della strage
"Messina avrebbe appreso da Micciché che era stato deciso di uccidere Falcone - ha detto in aula il teste - Da altri elementi, emersi agli atti del processo trattativa di Palermo, si fa riferimento al fatto che il piano di volo dello scomparso Giovanni Falcone era assolutamente segreto e non poteva essere conosciuto da chiunque, avendo utilizzato tra l'altro un volo di Stato". Su questo aspetto Di Stefano ha ricordato alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pietro Riggio, "in riferimento alla possibilità che qualcuno, durante il volo, abbia potuto dare comunicazione su quella che sarebbe stata l'evoluzione. O comunque, chi aveva ricognizione di quella busta riservata con il piano di volo avrebbe potuto dare suggerimenti o indicazioni sul punto in cui il volo sarebbe atterrato". E poi ancora quanto emerso in alcune relazioni di Gioacchino Genchi, dove si fa riferimento al dato per cui "i codici necessari per la clonazione, o per la inizializzazione dei telefoni utilizzati per la strage, erano all'interno di un'agendina di via Ughetti, dove si trovava latitante Nino Gioé (poi morto suicida, o suicidato, in carcere, ndr). Un'agendina della Camera dei Deputati, quindi molto particolare. Gli stessi codici sono stati rinvenuti in un computer di un ex appartenente della Guardia di Finanza, durante una perquisizione. Un soggetto che lavorava per Rtl, il cui proprietario è originario del vibonese". Sempre rispetto al tema sull'esistenza di un piano di volo riservato di cui poche persone potevano conoscerne l'esistenza, il teste non è andato oltre, segno che vi sono accertamenti in corso.
Tornando ai summit da cui emergono rapporti criminali tra mafie e settori deviati tra quelli di rilievo vi è quello del 1975 al ristorante il Fungo, a Roma. A questo incontro avrebbero preso parte Giuseppe Piromalli, Paolo De Stefano, Pasquale Condello, Giuseppe Nardi, personaggio di raccordo tra i De Stefano e la banda della Magliana, l'imprenditore Carmelo Cortese, iscritto alla P2 a diretto contatto con Licio Gelli.
Di Stefano, inoltre, ha ricordato le parole di Antonio D'Andrea*.
Quando fu sentito sul punto nel processo di primo grado D'Andrea disse: "Qualcuno aveva interesse che l’Italia fosse 'balcanizzata' come stava accadendo in Jugoslavia. Parliamo di interessi commerciali al di fuori della portata di quelli mafiosi, sono più grandi, dalla Deutsche bank in su. La massoneria è stata un percorso strategico della guerra fredda e quando crolla il muro vengono meno gli interessi imperialistici mondiali. Sono tutti preoccupati dai risvolti commerciali. I francesi e gli americani si muovono sempre fino a quando ci sarà una nuova guerra e fino ad allora saranno loro a dominare in quanto vincitori”.


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Il magistrato, Giovanni Falcone


La continuità di Gladio e quel collegamento con la Falange armata
Nel corso dell'esame, coadiuvato dalle slide, Di Stefano si è soffermato a lungo sul ruolo avuto da Gladio nel corso del tempo, citando i documenti ufficiali della Commissione parlamentare antimafia, che al tempo si occupò del caso, ma anche dei documenti rinvenuti dall’archivio di Giuseppe De Lutiis, storico dei servizi segreti scomparso nel 2017.
In particolare fu rinvenuto "documento di lavoro" che tratta dell’"acquisizione di ulteriore documentazione da parte del Sismi riguardante il noto elenco dei 30 e il caso Gladio in generale".
In particolare lo studioso aveva analizzato il "reclutamento del personale di Gladio".
E nei documenti si evidenziano tre livelli distinti (verde, giallo e rosso). Quello rosso viene definito come "il più riservato e ristretto". Ed è proprio da questo bacino che proverrebbe poi la sigla Falange Armata. Nell'appunto lo storico offre una descrizione grafica dello schema, al centro del quale compare un cerchio rosso, che "fa riferimento alle seguenti parole abbreviate, inserite dentro un cerchio con scritto Sismi: 'uff. contr.e sic.', seguita dal numero 15 e, ancora 'Fal. Arm.' seguita dal numero 15. È evidente che la prima abbreviazione rimandi all’Ufficio controllo e sicurezza mentre la seconda alla sigla Falange armata.
Di Stefano ha anche ricordato tutta la vicenda per cui Andreotti decise di rivelare l'esistenza di Gladio nel 1990, proprio nel momento in cui il quadro politico internazionale stava cambiando con la dissoluzione dell'URSS e la caduta del muro di Berlino.
Nel corso dell'esame sono state ricordate altre vicende: la presenza di ufficiali dei servizi, come il col. Camillo Guglielmi, in via Fani durante il rapimento del ministro Dc Aldo Moro, sullo scontro tra Andreotti e l'ex comandante del Sismi, ammiraglio Fulvio Martini, rimosso anzitempo, divenuto poi consigliere di Giuliano Amato durante la sua permanenza a Palazzo Chigi, e poi ancora la "coincidenza" per cui alcuni personaggi legati alla Gladio transitarono nell'ufficio dell'Alto commissario per la lotta alla mafia.

Quelle relazioni pericolose con la 'Ndrangheta
Altro documento messo in risalto durante l'esame è un vecchio rapporto della squadra mobile di Reggio Calabria degli anni '80, quando fu rinvenuto e sequestrato un passaporto palesemente falso nell'abitazione di Cosimo Polimeni, ucciso nella guerra di 'Ndrangheta, imparentato con i De Stefano. Al documento, intestato a tale Carlo Motta, era stata apposta la foto di Ivano Bongiovanni, personaggio dell'estrema destra coinvolto nel processo Italicus, nella strage di Brescia ed in altri attentati legati alle trame nere. "Bongiovanni - ha ricordato Di Stefano - frequentava il cassiere della banda della Magliana, Enrico Nicoletti, e il trafficante di stupefacenti Albert Bergamelli".
I rapporti tra certi ambienti sarebbero proseguiti nel tempo fino ai giorni nostri. Così Di Stefano ha evidenziato che nel settembre del 2009 Giuseppe Nardi, già identificato al Fungo di Roma con Paolo De Stefano, tentò di inviare una lettera a Orazio De Stefano, il più giovane della famiglia omonima, all'epoca detenuto, e che tra i rapinatori che violarono negli anni '70 le cassette di sicurezza della Cassa di Risparmio di Reggio Calabria, dove accanto a denaro e gioielli sarebbero stati conservati preziosi elenchi di massoni riservati, vi fosse anche Franco Manenti, esponente della banda della Magliana.
L'esame del funzionario della Dia riprenderà alla prossima udienza, prevista per il prossimo 16 marzo.

*Richiesta di Rettifica
Abbiamo ricevuto una richiesta di rettifica da parte dello stesso Antonio D'Andrea in quanto in un precedente passaggio dell'articolo veniva descritto come "un personaggio che vantava entrature con il gruppo Deutsche Bank, il quale avrebbe ricevuto tre miliardi di lire, una tranche di un finanziamento più corposo destinata a sostenere le 'Leghe meridionali', progetto condiviso da Giulio Andreotti, Gianfranco Miglio e Licio Gelli, per balcanizzare l'Italia in più Stati".
Antonio D'Andrea, oltre a non essere un collaboratore di giustizia, ma un testimone, non ha mai ricevuto né ha mai accettato, alcun importo dalla Deutsche Bank. Il teste Di Stefano aveva altresì ricordato come D'Andrea "avesse parlato del fatto che esso stesso aveva ricevuto un'offerta come anticipo di tre miliardi di lire al fine di favorire il progetto eversivo, e non il progetto 'filo istituzionale' di separatismo". Mentre, "per quanto riguarda il discorso di potenze straniere il D'Andrea aveva detto che questa offerta in denaro gli sarebbe stata proposta da un funzionario della Deutsche Bank". Dunque, ribadiamo che D'Andrea non ha mai condiviso alcun progetto di balcanizzazione dell'Italia e lo ha anche avversato. Ci scusiamo con i nostri lettori e con l'interessato per aver riportato in maniera errata il passaggio d'udienza, modificato immediatamente dopo verifica.
(Prima pubblicazione: 25 Febbraio 2022)

Foto © Imagoeconomica

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