Daniele Vicari gira a Catania “Prima che la notte”, il suo primo film tv per Rai1 in cui Fabrizio Gifuni interpreta il giornalista ucciso dalla mafia nel 1984
di Silvia Fumarola
“Fava, il maestro di vita che sfidò i boss”
Catania. Seduto al tavolino di un chiosco, circondato dai “carusi”, i ragazzi che lo seguono come una rockstar, Pippo Fava annuncia che fonderà un nuovo giornale: «Si chiamerà I Siciliani, 160 pagine a colori, un giornale ricco come un quadro, come Guernica di Picasso. Vorrei raccontare il territorio devastato e la bellezza, faremo una grande inchiesta sul potere; faremo i nomi delle persone che, non si sa perché, non si possono nominare. Ma soprattutto vorrei raccontare la vita. Nessun editore, nessun padrone: ce lo faremo con una cooperativa. Che senso ha essere vivi se non si ha il coraggio di lottare?». Qualcuno si alza: «Mi scusi direttore io capisco l’entusiasmo ma lei fa troppa retorica», gli altri brindano. Chiuso nella barba corvina, magro, maglietta nera, pantaloni a zampa d’elefante, Fabrizio Gifuni è Fava, una prova d’attore che resterà. Lorenza Indovina interpreta la moglie; Dario Aita, stesso sguardo serio, ha il ruolo del figlio Claudio.
Piazza Carlo Alberto a Catania è assolata, i banchi del mercato sono stati smontati, resta l’odore dolciastro della frutta. La storia del giornalista Giuseppe Fava rivive nella città che lo ha tradito, con un film tv Prima che la notte (tratto dal libro scritto dal figlio Claudio e da Michele Gambino) che il regista Daniele Vicari, autore rigoroso e appassionato (Diaz), sta finendo di girare per la Rai. Concentrato davanti ai monitor, si dispera quando i motorini rompono il silenzio: impossibile fermarli.
Giornalista (direttore del Giornale del Sud, fondatore de I Siciliani) scrittore, drammaturgo, sceneggiatore (nel 1980 Palermo or Wolfsburg di Schroeter vinse l’Orso d’oro a Berlino), innamorato della vita, intellettuale curioso, Fava venne ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984. Nessuno ammetteva che Cosa nostra si fosse presa Catania, all’inizio s’indagò come fosse un delitto passionale. «I mafiosi stanno in parlamento, a volte sono ministri, a volte banchieri, sono quelli che sono ai vertici della nazione» spiegò Fava nell’ultima intervista a Enzo Biagi (che per molti gli costò la vita) nel dicembre del 1983: «Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e impone la taglia sulla tua attività commerciale: questa è roba da piccola criminalità. Il problema della mafia è molto più tragico e importante».
Prima che la notte (coproduzione di Italian International Film di Lucisano e RaiFiction) racconta la passione per il giornalismo, un’epoca, «anche la mafia, certo, ma non è un film di mafia» racconta Vicari. «Conoscevo la storia di Fava. Sono convinto che sia un artista molto sottovalutato. Non a caso dico “artista”, perché le cose più interessanti sono il suo rapporto col cinema, il teatro e la pittura, per certi versi il giornalismo sembra quasi incidentale anche se era un giornalista importante. Nel rapporto con i giovani è un vero maestro, spiega come va il mondo e ti libera. Raccontiamo questa liberazione funestata con l’uccisione di Pippo. Proprio il fatto» continua il regista «che i suoi giovani non si siano fermati, rende l’omicidio crudele e inaccettabile. Grazie a questi ragazzi - diventati politici, giornalisti, scrittori, intellettuali - Pippo ha continuato a vivere. Fabrizio Gifuni ha aderito al ruolo in modo straordinario, rientra in una tradizione nobilissima che ha avuto come grande protagonista Gian Maria Volonté».
«Mi ha affascinato il suo gusto per il teatro», dice l’attore «Fava guardava la vita come a uno spettacolo teatrale, si sarebbe annoiato di raccontare il fenomeno criminale nudo e crudo, poteva farlo solo se i personaggi diventavano oscuri e tremendi, “i cavalieri dell’apocalisse mafiosa”. Aveva un concetto etico del giornalismo, pensava che potesse fermare la corruzione, stimolare le forze dell’ordine: se un giornalista non racconta la verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani. Questo aspetto lo sentiva come ineluttabile non eroico, la verità era un’esigenza. Fava» continua Gifuni «si mangiava la vita a morsi. Nel film parliamo di letteratura, cinema, dei disastri ambientali di Marina di Mellili, Priolo, Comiso, gli stessi disastri di oggi, ma anche di paesaggi meravigliosi: cercava in tutti i modi di sottrarsi alla cupezza».
«Insieme al rapporto padre-figlio» spiega Vicari «nel film è essenziale la relazione di questo gruppo di giovani speciali in una realtà difficilissima, quella della Catania dei primi anni 80. Fava anticipò i tempi perché realizzare un giornale libero, un mensile ricco come un libro in quella realtà ha destabilizzato i poteri locali: non era controllabile. Oggi ti svegli la mattina, crei un sito Internet e dici quello che ti pare. Ma fare un giornale, pensarlo, disegnare il menabò, cercare le notizie, era un lavoro artigianale di notevole complessità. Abbiamo cercato di valorizzare questo aspetto».
La domanda che ci si fa in questi casi è: sapeva di essere condannato? «Ho cercato di entrare nella sua testa» confessa Gifuni «e ho pensato che abbia cercato costantemente di allontanare l’idea della morte, ne rifiutava il pensiero. Tranquillizzava gli altri, da quando esplode la bomba carta al Giornale del Sud a quando il 28 dicembre riceve la cesta di ricotta e champagne da Gaetano Graci. Come a dire: ti ridurremo ricotta e brinderemo». «Fava aveva una strana fiducia nell’essere umano», riflette Vicari «era ironico e non cinico, e questa fiducia lo ha portato a pensare: “Non lo faranno mai in fondo sono uno scrittore. Non devo sentirmi dalla parte della ragione, faccio parte della contraddizione, sono in questa realtà e ho il diritto e il dovere di parlarne”. È un’estrema forma di spensierata temerarietà. Sto tentando di fare un film sulla vita, non sulla morte».
la Repubblica
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