di Angelo Mastrandrea
Il documentario. Le inchieste video dell’ex fondatore di Lotta Continua ucciso nel 1988 dalla mafia sono rimaste abbandonate per 20 anni in un magazzino dell’ex tv trapanese Rtc, che dirigeva. Il regista Alberto Castiglione le ha ritrovate e ne ha tratto un film che mostra il lavoro senza peli sulla lingua del giornalista e sociologo
Alle 20,10 del 26 settembre del 1988 Mauro Rostagno fu freddato con due colpi di fucile da caccia e altrettanti di P38 mentre rientrava, con la sua Fiat Duna bianca, alla comunità Saman dalla redazione della trapanese Radio Tele Cine (Rtc), di cui era direttore. Vestiva sempre di bianco, aveva la barba lunga e uno spiccato senso dell’ironia, di cui si serviva per mettere a nudo il potere locale e conquistare l’attenzione dei telespettatori. Diceva che «la vera rivoluzione è qui, a Trapani, adesso» e un pezzo di città lo amava allo stesso modo in cui un’altra parte lo detestava. «Alle 14, quando c’era il suo editoriale, la città si svuotava», ha ricordato il pm Gaetano Paci nella requisitoria del processo per l’uccisione del giornalista, che si è concluso con la condanna all’ergastolo di Vito Mazzara e del boss Vincenzo Virga. «La gente si sentiva rappresentata perché aveva dato voce a chi non l’aveva mai avuta», interessandosi della «politica del palazzo» con la stessa passione dei «topi al mercato» o dei «liquami per strada», ha spiegato ai magistrati un suo collega, Ninni Ravazza.
Negli ultimi tempi Rostagno aveva messo in luce quella «voglia d’Oriente nelle denominazioni» delle logge massoniche che si andavano scoperchiando: nomi come Iside, Hiram e Osiride, dietro i quali si nascondeva una rete di potere che controllava il territorio. Gli intrecci tra servizi segreti deviati, politica locale e cosche mafiose che andavano emergendo proiettavano affari e interessi ben oltre quel lembo estremo di Sicilia.
Per più di vent’anni si è indagato sui motivi dell’uccisione dell’ex esponente di Lotta Continua e sui possibili mandanti ed esecutori, si è scandagliata la sua vita privata e l’attività politica, indagando sulla comunità terapeutica che aveva fondato in Sicilia e risalendo fino all’omicidio del commissario Luigi Calabresi, ma a nessuno è mai venuto in mente di scavare nell’attività che più lo aveva impegnato negli ultimi due anni: quella di giornalista. Quando Alberto Castiglione, un giovane regista palermitano alla ricerca di storie da raccontare nella sua Sicilia, si è imbattuto nella figura di Rostagno, pensava di tirarne fuori un documentario biografico, come effettivamente accadde: nel 2005 realizzò Una voce nel vento, che fu finalista pure al premio Ilaria Alpi. Ma, quando venne a sapere che l’ex proprietario di Rtc, fallita dopo aver invano tentato di sopravvivere alla morte del suo direttore, stava per cedere i locali della redazione a un’agenzia pubblicitaria, si fece accompagnare a visitarli. Le scrivanie erano ancora al loro posto, ma tutto era sottosopra. In un magazzino abbandonato giacevano centinaia di master e videocassette. Era l’archivio della televisione, usurato dal tempo e dall’incuria. Nessuno, in tanti anni, aveva ritenuto opportuno ficcarci il naso per cercare qualche indizio utile a capire chi potesse aver avuto interesse a zittire il sociologo, giornalista e attivista politico. «Mi chiesi perché nessuno l’avesse fatto, mi insospettii e decisi di proseguire la mia inchiesta», racconta il videomaker siciliano.
Con l’aiuto di Carla Rostagno, sorella di Mauro, e il sostegno della Filmoteca Regionale Siciliana che ha acquisito l’intero archivio, Castiglione ha lavorato per sette anni sui materiali inediti ritrovati, dando un impulso sostanziale alla riapertura del processo, che ha consentito di arrivare a una verità giudiziaria che ha fatto piazza pulita di ricostruzioni dietrologiche e tentativi di depistaggio: a uccidere Mauro Rostagno fu la mafia trapanese. Ne ha tirato fuori un secondo film, La rivoluzione in onda, e nel frattempo ha deposto al processo, che si è concluso con la condanna dell’esecutore materiale Mazzara e del mandante Virga. Castiglione ha deciso di metterci la faccia: non è solo l’io narrante, ma un diretto protagonista. «Non avevo voglia di farlo, ma avendo testimoniato al processo sul recupero delle videocassette e avendo deciso di raccontare questa storia, non potevo fare altrimenti», dice.
La rivoluzione in onda fa scorrere le mille vite di Rostagno, dal ’68 a Trento a Lotta Continua, fino alla nascita di Saman, ma narra soprattutto la vicenda dell’archivio dimenticato, tirando fuori le immagini di repertorio dal dimenticatoio nel quale erano cadute: frammenti di editoriali e inchieste sul campo, interviste alla gente e fuori onda in redazione. Si intuisce quanto potesse essere dirompente, nel contesto trapanese degli anni Ottanta, l’attività di un reporter così atipico quale poteva essere quel trentino catapultato in Sicilia. «Nessuno fino a quel momento aveva svolto un’attività giornalistica così penetrante come quella di Rostagno», ha detto il pm Gaetano Paci in aula. La formula che gli aveva procurato una notorietà tale da spingere le cosche a condannarlo a morte è riassunta nelle motivazioni della sentenza: l’«insistenza martellante con cui ritornava su certi temi che invece altri organi di stampa, finito l’effetto di novità del fatto di cronaca, accantonavano», a cavallo tra il metodo sociologico e il recupero di una dimensione militante. «Ribadire, ribadire e ribadire ancora», enfatizzano i giudici. Soprattutto, parlare chiaro in un territorio soggiogato dai silenzi omertosi.
La soluzione del caso andava cercata in quella direzione e tra quei filmati: cosa poteva aver detto o denunciato, Mauro Rostagno, da indurre la mafia ad ammazzarlo? Nessuno aveva però guardato il contenuto di quelle registrazioni. Al contrario, il magazzino non era mai stato sequestrato e messo sotto tutela per evitare che le cassette deperissero o il materiale fosse portato via. «È stata adoperata una tecnica sottile ed efficace: non far sparire l’archivio ma lasciarlo dov’era, consegnandolo all’oblio», facendo in modo che nessuno lo cercasse e attorno a esso non si creasse alcun mistero, dice Castiglione, che dopo essersi impegnato nel recupero è andato dai giudici a spiegare quanto quei 250 nastri lasciati a marcire nell’ex redazione dismessa di Rtc siano stati importanti per ricostruire il contesto nel quale è maturato l’omicidio.
Difficile sapere quanto materiale è andato perduto o è stato fatto sparire. I master e i Vhs erano accatastati uno sull’altro, consegnati alla polvere e all’umidità, insieme a vecchi computer ormai inutilizzabili e altro materiale abbandonato. Della cassetta con le registrazioni delle telefonate che il giornalista portava sempre con sé, come ha raccontato la moglie Chicca Roveri, non c’è più traccia. Non si è trovata neppure la U-matic con la scritta «non toccare, Mauro», che un operatore di Saman e collaboratore di Rtc aveva poggiato sulla sua scrivania accanto alla foto della figlia Maddalena. «Mauro non voleva che qualcuno la vedesse», dice Carla Rostagno. Sarebbero sparite pure tre audiocassette e una videocassetta con un’intervista a una sua collaboratrice, distrutta da un carabiniere che la considerò non rilevante. Sono state salvate invece diverse trasmissioni nelle quali il giornalista aveva fatto nomi e cognomi di politici vicini alla mafia. Tra le chicche, spicca un’intervista a Leonardo Sciascia nella quale lo scrittore siciliano si esprime a favore della liberazione del fondatore delle Brigate Rosse Renato Curcio.
Dalle carte processuali emerge che nei giorni prima di essere ucciso Mauro Rostagno era nervoso. Nessuno è però riuscito a capirne la ragione. Il giornalista e sociologo non era nuovo a minacce e intimidazioni e non se n’era mai curato più di tanto, consapevole del fatto che le sue denunce potevano dare fastidio a molti. Cosa gli faceva paura, allora? Negli ultimi tempi si era occupato delle logge massoniche, in particolare la Iside2, e di un circolo che ne ospitava le riunioni. Aveva messo le mani su qualcosa di scottante, che andava oltre gli affari politico-mafiosi locali? Castiglione è convinto che la mafia sia solo il «primo livello», nell’uccisione del giornalista. Non è il solo a crederlo. Si è parlato della scoperta di un traffico d’armi verso la Somalia, forse lo stesso che qualche anno dopo avrebbe portato all’uccisione della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del suo operatore Milan Hrovatin. Nel film l’ultimo segretario comunista di Trapani, Nino Marino, sostiene che quello di Rostagno è stato un omicidio «eccellente», che non può essere attribuito solo alla mafia locale. All’epoca Trapani era solo apparentemente marginale nella geopolitica italiana: era al centro di trame che vedevano protagoniste logge segrete e l’organizzazione paramilitare clandestina Gladio, lo stesso Rostagno aveva dato la notizia di due viaggi segreti di Licio Gelli in città e queste commistioni proiettavano la mafia e la politica in uno scenario globale.
Forse non è un caso che ancora oggi sia la provincia della «primula rossa» della mafia Matteo Messina Denaro e che una recente indagine abbia fatto venire alla luce ben diciannove logge massoniche nell’intera provincia, sei delle quali nella sola Castelvetrano del boss più potente e ricercato di Cosa Nostra, mentre Mauro Rostagno è stato messo a tacere per sempre.
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