Parla il testimone-imputato
di Luca Rocca - 25 ottobre 2014
«Io un pataccaro? Ho sempre detto la verità». Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, don Vito, non si arrende. Non lo fa dopo il rinvio a giudizio per aver calunniato l’ex capo della Dia e della polizia, Gianni De Gennaro, né di fronte alla rivelazione che il «Signor Franco», il misterioso 007 che a suo dire avrebbe agito a cavallo fra la mafia e lo Stato, era solo un barista. Massimino, al contrario, conferma tutto quel che da anni va dicendo ai pm siciliani e spiega qual è la causa dei suoi guai, mediatici e giudiziari.
Ciancimino, ci sono giudici che le imputano un’enorme capacità di mentire e parlano di una sua “narcisistica propensione ad affermazioni eclatanti".
«Queste analisi da profiler non spettano al giudice, che non dovrebbe lanciarsi in questo tipo di disamine comportamentali. Non c’è mica una perizia medica che parla della mia sindrome di protagonismo».
Lei è sotto processo, a Caltanissetta e Palermo, per aver calunniato De Gennaro con affermazioni e documenti falsificati. Le pare poco?
«Io non falsifico documenti. Solo uno non è risultato in linea con gli esami della polizia scientifica. Un foglio su cui c’erano dei nomi di personaggi avvicinabili dalla mafia, e fra questi quello di De Gennaro, aggiunto in modo "sporco". Ma mi è stato dato da terze persone. Sarei dovuto stare più attento prima di consegnarlo ai pm. Io sono pronto a confrontarmi in qualunque sede su quello che conosco personalmente, ma per il resto, documentazione compresa, mi baso su quanto scritto e raccontato da mio padre, che certo non parlava ex cathedra».
Forse doveva pensarci prima di farsi arrestare da una procura, quella di Palermo, che certo non le è invisa.
«Premesso che, per il nome di De Gennaro, falsificato non da me, io sono sotto processo a Palermo, e Caltanissetta non c'entra nulla e non dovrebbe neanche permettersi di parlarne, il mio arresto è dipeso da una lotta fra le due procure. Facevano a gara a chi mi avrebbe arrestato per primo. Ma posso far notare un aspetto che sfugge a molti?»
Lo faccia notare.
«Napolitano non è preoccupato per la sua testimonianza al processo Borsellino quater a Caltanissetta, ma lo è per la sua deposizione davanti ai pm di Palermo. Io non so cosa sappia Napolitano di accordi indicibili, ma so che secondo mio padre la "trattativa" è nata in ambienti di sinistra. E comunque, quel processo morirà quando Napolitano riuscirà a imporre il capo dei pm di Caltanissetta, Sergio Lari, come procuratore di Palermo».
Accuse assurde e prive di senso. Lei ce l’ha coi pm nisseni perché l’hanno indagata. Tutto qua.
«Io non ho mai detto che il Signor Franco fosse De Gennaro, ma solo che dietro il Signor Franco aleggiasse lo "spettro" di De Gennaro, come scritto da mio padre».
Ma scusi. Il Signor Franco si è scoperto essere un barista non uno 007!
«Questa è una bufala. Il barista l’ho indicato io ai magistrati. Le cose sono andate così. Il commissariato di polizia di Palermo non voleva rilasciarmi il passaporto, e così ho chiamato il Signor Franco. Ci siamo incontrati e lui, dopo aver chiamato forse De Gennaro, mi ha assicurato che mi avrebbe fatto trovare il passaporto al bar Tomàs di piazza Euclide, gestito da Franco, che io chiamo "trivella". E così è andata».
La procura di Caltanissetta la accusa di aver rivelato segreti d'ufficio ad amici giornalisti.
«Ed è vero. Alla fine di ogni interrogatorio mi chiamavano, ma in realtà sapevano già gran parte delle cose che io avevo riferito ai pm. Però lo ammetto, su questo ho commesso degli errori. Parlavo coi giornalisti per ricostruire la mia immagine. Una cosa, però, è certa: io non sono il verbo, ma senza questo pataccaro il processo sulla Trattativa non sarebbe nemmeno iniziato».
Lei a Palermo è teste ma anche imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. Davvero un bel quadretto.
«Se non fossi teste non sarei imputato, e se non fossi imputato non potrei essere teste. Dopo aver raccontato di aver preso i pizzini da Provenzano, infatti, l’accusa di concorso esterno era scontata».
Ma anche il papello, le fantomatiche richieste fatte dalla mafia allo Stato per fermare le stragi, è un clamoroso falso.
«Questo secondo la perizia della difesa. Quella della polizia scientifica lo ritiene attendibile. Io non so se il papello che ho consegnato ai pm sia quello originale, perché mio padre aveva l’abitudine di fotocopiare le cose cento volte, e di certo non l’ha scritto Riina con le sue mani, visto che quella capra non sapeva mettere insieme due parole d’italiano. Ma che il contenuto sia autentico lo dimostra il "contropapello", cioè i punti del papello riscritti a matita da mio padre, di suo pugno, la cui autenticità è stata accertata. E quando la difesa di Mori dice che è falso perché parla di 41bis quando il carcere duro ancora non era legge, dimenticano di dire che in realtà nel papello e nel contropapello si parla di decreto, proprio perché il 41bis non era ancora legge effettiva».
Ciancimino, anche i grandi giornaloni, prima teneri con lei, l’hanno mollata.
«L’hanno fatto da quando ho tirato in ballo De Gennaro e sostenuto che la “trattativa” nasce in apparati di sinistra. Cinque anni fa il Corriere della Sera, partendo da un’intercettazione telefonica, ha scritto che avevo soldi a Parigi e che manipolavo il computer di Ingroia. Ma non c’è stato nessuno strascico giudiziario.
Però è vero che lei al telefono disse di aver avuto accesso al computer di Ingroia e che alla procura di Palermo poteva muoversi liberamente.
Ma erano fesserie. A Ingroia davo solo delle spiegazioni sull’uso dell’i-Pad e per il resto millantavo con un signore per una questione soldi».
Ciancimino, ma perché tutte queste patacche?
«Ma quali patacche! Che vantaggi ho tratto da questa storia? Nel 2005 avevo solo una condanna a 2 anni e 8 mesi, poi indultata. I soldi non mi mancavano. Perché avrei dovuto farlo? Solo per farmi quattro puntate ad Anno Zero? Io mi sono messo contro l'uomo più potente d'Italia, e solo un coglione come me poteva farlo. È stato un suicidio».
C’è un puparo dietro di lei?
«Se ci fosse, lo ammazzerei, visto che mi ha rovinato».
Lei si sente «un’icona antimafia», come la definì Ingroia?
«Le icone antimafia, quelle vere, gli eroi, sono tutti morti. Io grazie a Dio, sopravvivo».
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