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20 gennaio 2012
Palermo. Nel marzo del '92, subito dopo l'omicidio dell'europarlamentare Salvo Lima, ucciso a Palermo da Cosa nostra, l'allora ministro dell'Interno Vincenzo Scotti denunciò più volte un allarme attentati ad esponenti delle istituzioni parlando di un rischio di «destabilizzazioni delle istituzioni», ma l'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti lo giudicò un «venditore di patacche». A denunciarlo oggi in aula, a distanza di vent'anni, è lo stesso ex ministro Scotti, ascoltato, come testimone, al processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauto Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano. «Fui giudicato come avventato e impulsivo - racconta in aula il 79enne Scotti - insomma, un venditore di patacche, se vogliamo dirlo in termini effettivi». Vincenzo Scotti, nel marzo 1992 parlò dell'allarme attentati a rappresentanti istituzionali davanti alla Commissione Affari costituzionali e Interni di Camera e Senato. In particolare riferì di minacce di morte a Carlo Vizzini e Calogero Mannino, entrambi all'epoca ministri. «Subito dopo l'omicidio di Salvo Lima - spiega in aula Scotti interrogato dal pm Antonino Di Matteo - l'allora capo della Polizia e direttore del Dipartimento di Pubblica sicurezza Vincenzo Parisi (oggi morto ndr) iniziò a richiamare la mia attenzione su una serie di informative che provenivano dai servizi di sicurezza. Le conclusioni di quelle informative erano estremamente preoccupanti. All'epoca abbiamo lette quelle note insieme con Parisi, che era una persona molta attenta. Quelle informative facevano ritenere la necessità di dichiarare lo stato di allerta delle forze dell'ordine e dei prefetti perchè le conclusioni a cui arrivavano erano davvero preoccupanti». Dopo qualche giorno la «notizia esplose sui quotidiani - racconta ancora l'ex ministro Scotti in aula - e si accese una polemica politica molto forte». In particolare era stato l'ex premier Giulio Andreotti ad accusare Scotti di eccessivo allarmismo. Anche perchè era stato un noto depistatore, Elio Ciolini a parlare a un magistrato di Bologna di un allarme attentati a esponenti delle istituzioni. «Alla vigilia delle mie informativa in Parlamento venne fuori il nome di Ciolini. Ma io quelle informative - dice Scotti - le ebbi dalle note del capo della Polizia» e non da Ciolini. Dopo l'omicidio di Salvo Lima, Vincenzo Scotti disse al Parlamento, come racconta oggi lo stesso ex ministro dell'Interno: «ci sono due strade da seguire, o rafforziamo l'azione repressiva nei confronti della mafia o vogliamo accettare una condizione di allentamento della situazione. È una scelta sui cui si deve esprimere il Parlamento». Nel corso della deposizione di oggi, l'ex ministro dell'Interno ha poi parlato di due intrusioni nella sua abitazione proprio nel periodo oggi preso in esame, cioè dall'inizio del'92 al marzo del '92. «Avevo trovato disordine a casa tra i miei documenti ma non mancava nulla - racconta Scotti - non avevano sottratto atti, non era un furto era evidente. Accadde per due volte a casa e una volta in ufficio, ma parlandone con l'allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi, mi consigliò di non sporgere denuncia senza spiegarmi il motivo». Le intrusioni misteriose nell'abitazione di Scotti accaddero prima dell'omicidio di Salvo Lima. «Non feci denuncia perchè mi fidavo delle indicazioni che mi dava il Capo della Polizia!», ha risposto Scotti al pm Di Matteo che gli chiede come mai non abbia sporto denuncia nonostante ricoprisse quell'incarico. Nella lunga deposizione dell'ex ministro dell'Interno ha ricordato che il 29 giugno del 1992 venne sostituito nel suo ruolo di ministro dell'Interno nell'allora Governo Andreotti, dopo un rimpasto, e diventò ministro degli Esteri: «Ma mi dimisi ai primi di luglio perchè Andreotti ci teneva che seguissi tre importanti incontri internazionali, il G7 a Monaco, un altro vertice a Helsinki e a Vienna». Scotti ha anche ricordato le difficoltà incontrate nel '92 per la realizzazione della Direzione investigativa antimafia, nata proprio in quel periodo così come per la Direzione nazionale antimafia. «I contrasti furono molto accesi sulle due innovazioni e si dovette procedere in modo separato», sottolinea. I Carabinieri, in particolare, non accettavano il decreto legge sulla Dia. «Ma spiegai al generale dell'Arma che ormai il decreto era legge e quindi doveva accettarlo e così fu», dice Scotti.

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