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A Palazzo del Governatore per il Rumore del Lutto il dialogo fra la fotografa che a Palermo ha raccontato le guerre di mafia e l'architetto di fama mondiale

Pensare il sacro in senso laico e umanistico, attraverso l’arte e le forme visibili ideate dall’uomo per raccontare ed abitare il mondo: è questo il cuore del dialogo intrecciato tra due protagonisti della scena culturale internazionale, Letizia Battaglia e Mario Botta, nell’incontro Visioni del sacro organizzato dall'Ordine degli Architetti Ppc di Parma in collaborazione con Ama - Accademia Mendrisio Alumni, a cura di Francesco Di Gregorio ed Eleonora Caggiati, che si è tenuto nell’auditorium del palazzo del Governatore sabato mattina, nell’ambito della XV edizione della rassegna Il Rumore del Lutto.

A legare il lavoro fotografico di testimonianza contro la violenza della mafia portato avanti da Letizia Battaglia e le architetture di Mario Botta in cui il sacro è matrice primaria, una comune, radicale tensione verso l’irrevocabile condizione di essere terreni che permette di dare forma alla fragilità degli uomini.

In questo radicamento nel terreno dell’umano, il sacro non si trova nei recinti dove ci si aspetterebbe di trovarlo, sfugge ai luoghi e ai simboli canonici del religioso, rifiuta la porta stretta di una bellezza consolatoria e pacificante: "Ho fotografato le processioni, i Cristi, le Sante Rosalie ma non ho portato nessuna di queste immagini da farvi vedere perché il sacro non si trova lì, per me. Quelli sono racconti che non mi riguardano. Il sacro lo ho incontrato in persone, vive o morte, che mi hanno aiutato a sostenere la mia piccola vita, la mia gioia e la mia fatica".

Figure del sacro negli scatti di Letizia Battaglia sono "un uomo come Pasolini, di cui ho conosciuto la debolezza come essere umano e la forza politica, un uomo che faceva arte e denunciava i potenti; Marguerite Yourcenar, meravigliosa creatura che ha saputo dire ‘io sono Adriano’; Gesù, nella rappresentazione fatta da Michelangelo a 17 anni: un uomo piccolo e nudo, in quanto vittima per me uguale a Che Guevara, Pasolini, Falcone e Borsellino".


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Un riferimento sacro, prosegue Battaglia, "lo trovo nella fiducia in cose tangibili come l’amore e la cultura. Nel non rimanere soli. La libertà è il sacro".

Palermitana di nascita, Letizia Battaglia inizia a fotografare a Milano nei primi anni Settanta. Nel 1974 è chiamata dirigere il team fotografico del giornale L’Ora di Palermo dove scatta fotografie dei delitti di mafia che contribuiscono a diffondere una cultura della consapevolezza. Le sue immagini in bianco e nero raccontano le miserie e le difficoltà della vita nelle strade di Palermo. Diventano celeberrimi i suoi scatti di bambini, corpi di donne, feste e lutti a rappresentazione delle grandi contraddizioni della storia di questa città, ma anche dell’urgenza di abbattere pregiudizi e costrizioni sociali.

L’esercizio dello sguardo come testimonianza, una frontalità implacabile di fronte al male, i legami d’amore tra le persone, la cultura: strumenti del tutto umani, quelli nominati da Letizia Battaglia che si definisce "una resistente che fa resistenza con quello che può, prima di tutto con la macchina fotografica”, partendo dal basso, al di fuori di ogni idealizzazione e retorica. E, soprattutto, senza filtri.

"Fotografare diciotto anni di guerra tra mafia e istituzioni non lascia indenni: ricordo un bambino di dieci anni steso in una pozza di sangue, ucciso perché aveva visto gli assassini del padre. Quella foto non la diedi al giornale e per molti anni l’ho conservata fino a quando mi sono detta che si doveva sapere quello che avevano fatto i mafiosi, ammazzando bambini, donne e uomini per bene. Ma dopo che hanno ucciso Falcone e Borsellino mi sono fermata dal fare questa cronaca: volevo morire perché tutte le lotte e le resistenze che avevamo fatto erano state inutili".

Il rumore del lutto per la fotografa passa da ciò di cui è stata testimone, è l’urlo della madre che ha visto uccidere il figlio, è l’offesa all’uomo e alla natura ed è anche "il ponte sullo stretto di Messina che favorirà andranghetisti e mafiosi".

Dopo avere chiuso con la cronaca di morti ammazzati dalla mafia, da anni "fotografo solo nudo femminile, un nudo terreno, bello, rispettoso: adoro fotografare le donne, specialmente quelle di Palermo che si sono finalmente emancipate".

Lutto è anche la ferita e lo scempio urbanistico inflitto al corpo delle città secondo Mario Botta.


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Nato a Mendrisio, dopo avere studiato architettura a Venezia, dove determinanti sono gli incontri con Carlo Scarpa, Le Corbusier e Louis I. Kahn, con l’apertura del suo studio a Lugano nel 1970, Botta avvia un percorso che spazia dalla didattica a livello internazionale, alla realizzazione di opere di diverse tipologie edilizie, tra cui anche numerosi edifici religiosi. Celebri sono diventati i suoi progetti del Teatro alla Scala di Milano, del Mart Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto e, a Parma, la riqualificazione di Piazzale della Pace, Giardino della Pilotta.

Caso emblematico di lutto come sfregio al corpo della città, osserva l’architetto, la demolizione della palazzina liberty in piazza Croci a Palermo: "Un esempio della fragilità della nostra cultura per difendere la quale spesso non basta la volontà politica di correggere vandalismi che sfregiano le nostre città".

Il compito del fotografo come dell’architetto, osserva Botta, sta nell’interrogarsi sulle ragioni del proprio abitare la terra: "Oggi abbiamo costruito delle caserme e dei garage che abbiamo chiamato chiese: che cosa abbiamo perso rispetto a un insegnamento millenario? Non siamo più capaci di dare un significato di bellezza e benessere allo spazio relazionandolo ai sentimenti migliori dell’uomo".

L’architetto ha, in questo senso, responsabilità di critica sociale, politica ed estetica: "Come architetto il mio lavoro intorno al sacro parte da una domanda pragmatica e funzionale anche se la vera domanda è sempre molto evocativa del proprio tempo: che cos’è l’abitare oggi di fronte alla società dei consumi, che cosa significa oggi uno spazio di preghiera come una chiesa, una sinagoga o una moschea in un mondo apparentemente molto lontano dai bisogni dello spirito?".

Se la storia dell’architettura trasmette una intera enciclopedia di modelli, "la domanda più richiesta dall’umanità resta che cosa sia una casa, spazio che continua a essere nell’inconscio dell’uomo il rifugio ultimo, luogo di ritorno all’utero materno".


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Andando alla radice del primo gesto con cui l’uomo costruisce la sua casa nel mondo, "l’architettura, che chiede un lavoro plurimo, collettivo, porta con sé il sacro perché trasforma sempre una condizione di natura in una condizione di cultura, parlando dello spirito dell’uomo e offrendosi come specchio, talvolta impietoso, del bello e del brutto di ogni società".

Dalla capacità di significare lo spazio in cui si vive deriva una responsabilità che si esprime nella ricerca di una forma estetica del vivere in comune che sia anche etica: "La città europea è ancora il modello di vita sociale più bello, più funzionale e intelligente che l’umanità abbia saputo costruire: siamo andati sulla luna ma non abbiamo trovato un altro modello di vita aggregata che esprima l’intelligenza della vecchia città europea mentre molte delle brutture che vediamo sono prodotte dalla società dei consumi".

Guardando al futuro, "mentre nel periodo delle avanguardie artistiche del Novecento c’era grande fiducia nel progresso, adesso siamo in una situazione di precarietà del vivere. Non solo vediamo che il progresso è finito ma sappiamo che è finito in un tempo brevissimo per cui abbiamo la consapevolezza della nostra responsabilità. Sappiamo che ovunque ci sono focolai di guerra e continuiamo a giocare con la vita dell’umanità".

Nel lavoro come cura per l’individuo e per la società è possibile recuperare la speranza di un futuro migliore dal momento che "ogni lavoro fatto bene è una forma etica e pragmatica del vivere attraverso la quale ognuno tenta di dare il meglio partecipando alla vita collettiva”. Coerentemente con una concezione etica del costruire, “di fronte a un mandato, anche modesto, rispondo sì solo se credo di poter riscattare quel tema facendolo mio e imparando qualcosa".

Così come, nella sua esperienza personale, il lavoro è stato motore di emancipazione e trasformazione, una maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro e della politica rappresenta per Letizia Battaglia la chiave di volta per la costruzione di società diverse: "Penso che il futuro sarà meraviglioso perché lavoreremo: la cosa bella è lavorare, facendo bene piccole cose come sistemare un marciapiede o curare un fiore. Io ho quasi novant’anni per cui ho ancora davanti a me un bel futuro per lavorare. Per ora dirigo, con pochi soldi, il Centro Internazionale di Fotografia di Palermo, sono ammalata gravemente e credo che andare avanti sia meraviglioso".

Tratto da: parma.repubblica.it

Foto originale © S. F.

Foto interne © Letizia Battaglia

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