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di Rosalba Castelletti
Oltre centomila persone in strada ieri per rivendicare la vittoria della candidata dell’opposizione Tikhanovskaja alle presidenziali. Ma il leader, 65 anni, al potere da 26, non intende cedere

Minsk. Sono tornati in strada per la seconda domenica consecutiva. Nonostante la pioggia, i blindati lungo le strade e la minaccia di un intervento dell’esercito. Vecchi dissidenti, giovani con la barba hipster, intere famiglie e ragazze con coroncine di mughetto in testa o mazzi di fiori in mano. «Oltre 100mila», «almeno 200mila», sui social rimbalzano le cifre. Difficile stimarli. Sono dappertutto. Un corteo informe "come l’acqua". Gridano e cantano in piazza Indipendenza di fronte all’imponente edificio che ospita il Parlamento sotto lo sguardo severo dell’immancabile statua di Vladimir Lenin. Coprono con i fischi le minacce di arresto per il raduno non autorizzato che arrivano dai megafoni. Colorano i lindi viali di Minsk di rosso e bianco sventolando l’antica bandiera diventata vessillo dell’opposizione al leader 65enne Aleksandr Lukashenko. Sfilano verso il monumento alla Seconda guerra mondiale circondato dai militari e poi fino al palazzo presidenziale. Gli automobilisti salutano col clacson e loro rispondono col segno di vittoria di quella che considerano la loro "presidente legittima", Svetlana Tikhanovskaja, fuggita in Lituania all’indomani delle elezioni del 9 agosto.
Cominciata dopo la contestata vittoria di Lukashenko per un sesto mandato consecutivo, la protesta resiste. Gli slogan sono gli stessi che echeggiano ormai da due settimane: Ukhodi, Ukhodi , "Via, Via"; Lukashenko v avtozak , "Lukashenko in un furgone della polizia"; Vmieste, "Insieme"; Zabastovka, "Sciopero". «Elezioni oneste, fine della repressione e liberazione di tutti i detenuti politici», la 34enne Svetlana elenca le rivendicazioni della piazza. «Vogliamo mostrare ai nostri figli la nuova e vera Bielorussia», dicono Evgenij e Jiulija, che con loro hanno portato Mark e Agata di nove e sette anni. Che cosa chiedono? «Cambiamenti». Peremen, rispondono tutti, come l’inno sovietico alla perestrojka di Viktor Tsoi diventato la colonna sonora delle manifestazioni.
Anche Ksenia Prudnikova, imprenditrice 41enne, è scesa in strada con la famiglia dopo aver allestito cartelloni, gonfiato palloncini e tagliato nastri bianchi. «Ti svegli ogni mattina temendo che le manifestazioni scemeranno e ogni mattina scopri che qualcuno ha già lanciato un’iniziativa», dice sbigottita dalla marea umana. «Abbiamo uno slogan: Kazhdij den, kazhdij den . "Ogni giorno, ogni giorno". E cerchiamo di metterlo in pratica. Non molliamo».
I giorni passati, però, sono stati «un’altalena emotiva», come ha detto in un videomessaggio Maria Kolesnikova, l’unica donna rimasta a Minsk del "triumvirato" femminile che aveva guidato la campagna elettorale dell’opposizione. Molti avevano pensato che l’imponente "Marcia per la libertà" di una domenica fa fosse "l’inizio della fine". L’indomani decine di fabbriche e persino la tv statale, megafono della propaganda, avevano aderito allo sciopero nazionale indetto dall’opposizione. E Lukashenko era stato accolto dai fischi degli operai, a lungo considerati lo zoccolo della sua base elettorale. Ma l’ex direttore di una fattoria sovietica, trasformatosi nell’ultimo dittatore d’Europa, come è stato battezzato, ha fatto capire che non se ne andrà senza combattere. Quando agli operai ha risposto che sarebbe morto piuttosto che indire nuove elezioni, non era retorico. Dopo che ha giurato che avrebbe «risolto il problema» della contestazione, frutto - a suo dire - di un complotto occidentale, i procuratori hanno interrogato i rappresentati del Consiglio di Coordinamento creato dall’opposizione, i leader degli scioperi delle fabbriche sono stati arrestati, i dipendenti della tv statale in agitazione sono stati sostituiti con operatori russi, l’esercito è stato messo in stato d’allerta contro presunti movimenti Nato alla frontiera e in un audio il ministro della Difesa ha avvertito i generali di prepararsi alla guerra civile. Ieri, per chiarire il messaggio, lo stesso Lukashenko è sceso dall’elicottero presidenziale con giubbotto anti-proiettile e kalashnikov in mano.
«Non è un’altalena, sono vere e proprie montagne russe», ammette Anastasija Kapustina, trent’anni. «Ma bisogna portare avanti la lotta». Come per tanti bielorussi, il coronavirus è stata la miccia del suo impegno politico. «Ho capito che il governo non ci avrebbe dato nessuna assistenza. Quando poi, in campagna elettorale, i candidati dell’opposizione sono stati arrestati o esiliati, non potevo restare indifferente. Abbiamo un modo di dire: "La mia casa è sul bordo". Vuol dire: "Non sono affari miei". In tanti avevamo la casa sul bordo, ma ora siamo tutti coinvolti. Abbiamo tutti un compito».
C’è chi porta acqua e cibo ai dimostranti, chi - come Anastasija - assiste al rilascio quanti erano stati arrestati, chi organizza picchetti. Nel movimento non ci sono capifila. Tutti i leader sono in esilio o in carcere. Gli esponenti del neonato Consiglio di coordinamento non indicono manifestazioni. Le istruzioni per i cortei quotidiani o le catene umane delle cosiddette "Donne in bianco" arrivano sui canali Telegram, l’app di messaggistica cifrata. Come quando alle 15.30 tutti si uniscono al minuto di silenzio per le vittime delle quattro notti di repressione seguite al voto: almeno quattro dimostranti morti, centinaia di feriti, quasi 80 dispersi e oltre 7mila detenuti che, una volta rilasciati, hanno raccontato l’orrore nelle carceri. Per un Paese dove un terzo della popolazione è morta nella Seconda guerra mondiale, le torture sono state il punto di non ritorno. «Una linea rossa di sangue», secondo Evgenij, 32 anni, che ha trascorso due giorni nell’oramai famigerato carcere di Okrestino. «Siamo rimasti in silenzio per troppo tempo, ma stavolta non perdoneremo». In 26 anni al potere Lukashenko aveva trasformato il Paese senza sbocco sul mare, incastonato tra Russia e Ue, in una miniatura dell’Urss. Via il limite di mandati e ogni minaccia al suo regime autoritario. Chiusi i media indipendenti. Incarcerati o dispersi gli oppositori. Poteri illimitati al Kgb, i servizi segreti che oltre al nome hanno conservato i metodi sovietici. Ma aveva garantito la pace e la stabilità che manca a tante altre Repubbliche ex-sovietiche. Ora ha rotto il patto con la società, ma gode ancora del sostegno di esercito e servizi. «Sappiamo che il confronto durerà mesi, ma siamo pronti per questa maratona», promette Olga, che festeggia i suoi 33 anni in piazza. «Faremo vedere quanti siamo ogni giorno».

Tratto da: La Repubblica

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