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di Chiara Ugolini - Fotogallery
Candidato a tre Golden Globe, il film di Tom McCarthy racconta l'inchiesta premio Pulitzer su un arcivescovo di Boston accusato di aver coperto casi di abusi sessuali su bambini. Nel cast Mark Ruffalo, Stanley Tucci, Michael Keaton, Rachel McAdams

mccarthy tom spotlight

La vera notizia che riguarda Il caso Spotlight, il film di Tom McCarthy presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia e ora candidato a tre premi Oscar, è che il team investigativo del Boston Globe che va sotto il nome di Spotlight esiste ancora. E ancora oggi esiste un numero di telefono ed una mail al quale inviare le proprie segnalazioni quando qualcosa ai lettori del Boston Globe non convince. Il gruppo Spotlight è composto da un direttore e sette giornalisti tra i quali c'è ancora un membro del gruppo originale che vinse il Pulitzer nel 2002 in seguito ad un'inchiesta che ha denunciato la copertura sistematica da parte della gerarchia della Chiesa Cattolica degli abusi sessuali commessi su minori da oltre 70 sacerdoti locali. E' Michael Rezendes, nel film lo interpreta Mark Ruffalo.



"Negli ultimi quindici anni, molti quotidiani hanno chiuso e giornalisti di grande esperienza hanno perso il lavoro -  osserva la produttrice del film Nicole Rocklin - Con i tagli di bilancio che ci sono stati, quale testata giornalistica avrà più le risorse economiche e professionali per condurre inchieste del genere? Se questi cronisti non avessero dedicato anni di lavoro ai fatti di Boston, quei fatti sarebbero mai venuti a galla? Insomma, fa paura l’idea che gruppi investigativi come quello del team Spotlight siano scomparsi dalle redazioni dei quotidiani di tutto il paese". Per questo la storia di Spotlight andava raccontata. Tutto è iniziato, come si racconta nel film: l'arrivo per la prima volta nella storia del quotidiano di un direttore che non fosse nato e cresciuto a Boston, Marty Baron, interpretato da Liev Schreiber, che non ha paura di pestare i piedi ai poteri forti della città, la sua decisione di approfondire una notizia a cui erano state dedicate poche righe, la formazione del gruppo investigativo e infine l'inchiesta, un lavoro molto lungo, mesi e mesi di interviste, studio dei documenti, pressioni su avvocati e clero per avere delle risposte. Nel 2002 il Boston Globe pubblicò circa seicento articoli in cui rivelò a tutta la città quello che per trent'anni era accaduto nell'omertà generale riuscendo a raccogliere prove contro 70 preti e dimostrando che esisteva una pratica diffusa per cui quando il Vescovo Law veniva a sapere di denunce fatte dalle famiglie dei ragazzini abusati (il cui profilo era sempre lo stesso: famiglie povere, padri assenti, disagio), patteggiava con i familiari un rimborso, spostava di parrocchia il religioso, per poi rimetterlo poco tempo dopo al suo posto.

Walter "Robby" Robinson, che scrive ancora per il Boston Globe, attribuisce a Baron il merito di avere dato una bella scossa alla redazione, chiedendo ai suoi giornalisti di mettere alla prova la fino ad allora indiscussa capacità della Chiesa di tenere nascosti gli accordi extragiudiziali con le vittime degli abusi. "Quando Marty Baron è arrivato a Boston, ci ha detto di andare dritti in tribunale a chiedere che gli atti fossero resi pubblici, perché la gente aveva il diritto di sapere”, ricorda Robinson. “Non eravamo abituati a farlo. Il nostro lavoro con il team Spotlight, era quello di denunciare la corruzione pubblica quando c’erano i documenti da visionare e le persone da intervistare. Per questa inchiesta, abbiamo dovuto scavare parecchio per avere informazioni su quell’unico sacerdote citato nell’articolo della McNamara, John Geoghan. Ma ben presto abbiamo scoperto che non era un caso isolato". Negli anni dell’inchiesta del team Spotlight, infatti, sono stati documentati e denunciati casi di abusi sessuali commessi da sacerdoti della Chiesa Cattolica in 105 città americane e 102 diocesi in tutto il mondo.

Mentre girava gli esterni a Boston, nell’autunno del 2014, McCarthy aveva un solo obiettivo: "Volevamo restare il più possibile fedeli alla realtà". Rezendes, che è rimasto nel team Spotlight a svolgere le sue inchieste sulla corruzione, si è incontrato diverse volte con lo sceneggiatore Josh Singer, durante la preparazione del film. Ma non era certo preparato a quello che ha visto sullo schermo, a fine riprese. "Mark somiglia molto a me nel 2001- racconta il giornalista - con i capelli corti, le scarpe nere di vernice, le polo scure, i jeans. È identico, insomma. È stato anche bravissimo a riprodurre il mio modo di parlare e di camminare". Poco abituata a trovarsi nel ruolo dell’intervistata, la giornalista Sacha Pfeiffer è rimasta sorpresa dall’attenzione ai dettagli dimostrata dalla McAdams durante le loro conversazioni prima dell’inizio delle riprese. "Mi faceva domande tipo: Portavi le unghie lunghe, nel 2001? Pranzavi alla mensa del Globe o ti portavi qualcosa da casa? Che tipo di scarpe mettevi? Ti vestivi in modo diverso quando uscivi a fare due passi? Quanto sapeva la tua famiglia? Che cosa pensava tuo marito? Ti sentivi mai frustrata?". Dopo aver visto un primo montaggio, i giornalisti rappresentati nel film hanno espresso un parere positivo. "Marty ci ha inviato una mail, sottolineando quanto fosse importante far capire alla gente che il tipo di giornalismo che si vede nel Caso Spotlight è un elemento chiave nella nostra società - racconta il regista - una stampa libera tiene sotto controllo anche le istituzioni più potenti".

Il film al di là della sua dimensione di denuncia è principalmente un omaggio al giornalismo investigativo e si riallaccia alla tradizione di tanto cinema americano dedicato ai media. "Ogni film girato successivamente vive nell'ombra di quel film iconico che è Tutti gli uomini del Presidente - ha detto McCarthy a Venezia - io ho fatto di tutto per ignorarlo per non essere troppo influenzato ma non so se ci sono riuscito. Il massimo riferimento però per me rimane Sidney Lumet, mentore e amico, i cui film mi parlano anche oggi". A quasi 14 anni dalle sue scioccanti rivelazioni, l’inchiesta del Globe sugli abusi del clero continua ad avere una vasta eco in tutto il mondo e forti ripercussioni all’interno delle gerarchie ecclesiastiche. "Oggi la Chiesa pone grande attenzione ai temi affrontati nel nostro film, e buona parte dei cambiamenti in atto su quel fronte è riconducibile al lavoro del team Spotlight -  dichiara il produttore Michael Sugar. "Non voglio abbattere il sistema ma vorrei soltanto dire la verità - ha detto Ruffalo a Venezia - Spero che il Papa e il Vaticano utilizzino questo film, questa storia sobria e semplice, come opportunità per cominciare a curare le ferite che la Chiesa ha provocato. Non solo per le vittime ma anche per tutti quelli che, dopo aver scoperto questa vicenda, si sentono confusi".

repubblica.it

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