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canali-olindodi Nuccio Anselmo - 22 maggio 2013
«Il fatto non sussiste». Una frase che cancella i due anni del primo grado. L’aggravante mafiosa era già caduta allora. Ecco la clamorosa sentenza di ieri pomeriggio della Corte d’appello di Reggio Calabria per il magistrato milanese Olindo Canali, per tanti anni in servizio alla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto, e oggi giudice del tribunale di Milano, alla Sezione famiglia. Canali era finito nei mesi scorsi sotto processo con l’accusa di falsa testimonianza con l’aggravante d’aver favorito l’associazione mafiosa barcellonese per una sua testimonianza resa in appello, sul suo memoriale, al maxiprocesso alla mafia barcellonese “Mare Nostrum”, che si tenne a Messina. E in primo grado, nel marzo dello scorso anno il gup di Reggio Calabria Cinzia Barillà lo aveva condannato per questa vicenda a due anni, escludendo la sussistenza dell’aggravante mafiosa. All’epoca l’accusa, il pm Federico Perrone Capano, il magistrato che condusse gli accertamenti insieme al suo capo dell’ufficio, l’ex procuratore di Reggio Giuseppe Pignatone, aveva chiesto una condanna più dura, a 4 anni di reclusione, ritenendo sussistente anche l’aggravante dell’art. 7 della legge n.203/91. Ieri mattina, davanti al collegio di secondo grado presieduto dal giudice Giuliana Campagna e composto dalle colleghe Adriana Costabile e Angelina Bandiera, era stato il sostituto procuratore generale Francesco Mollace a rappresentare l’accusa. E aveva chiesto per il collega la conferma della condanna a 2 anni inflitta dal gup Barillà. Poi avevano discusso i difensori del magistrato, gli avvocati Fabrizio Formica e il suo collega di Milano Francesco Arata. Erano le cinque del pomeriggio passate quando tutto è finito e dopo una lunga camera di consiglio, il presidente Campagna ha scandito la formula: «il fatto non sussiste».

Sarà molto interessante leggere adesso le motivazioni di questa sentenza, che ribalta il giudizio di primo grado e si inserisce in una vicenda molto più ampia, che parla dei veleni sulle due sponde giudiziarie dello Stretto e arriva fino ai retroscena dell’omicidio di Beppe Alfano, il cronista de “La Sicilia” ammazzato dalla mafia nel 1993 a Barcellona, e anche ai mille rivoli giudiziari del maxiprocesso alla mafia tirrenica “Mare Nostrum”, uno dei più elefantiaci, controversi e dilatati procedimenti della storia giudiziaria italiana. Il magistrato Canali che ieri è stato completamente assolto, era originariamente accusato di falsa testimonianza «con l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso denominata Cosa nostra ed in particolare della sua articolazione di Barcellona Pozzo di Gotto, facente capo a Gullotti Giuseppe». La vicenda è quella ormai stranota del memoriale scritto dal magistrato nel lontano 2006 su tutta la sua esperienza barcellonese e delle presunte “duplicazioni” dell’atto, mentre il giorno in cui si sarebbe concretizzata la falsa testimonianza secondo l’accusa iniziale poi caduta è quello della sua deposizione in aula, nel 2009, al maxiprocesso d’appello “Mare Nostrum”, di cui tra l’altro il magistrato fu pubblico ministero in primo grado, applicato per questo alla Distrettuale antimafia di Messina. E si sarebbe concretizzata – sempre secondo l’accusa iniziale -, con una condotta specifica, perché nel corso della testimonianza resa in aula, Canali «negava il vero sostenendo di non aver redatto, nel periodo immediatamente successivo alle festività natalizie 2005, documenti e memoriali, relativi all’omicidio Alfano, diversi ed ulteriori rispetto al file inviato per posta elettronica al giornalista Leonardo Orlando e negava il vero sostenendo di non aver ricevuto confidenze da Beppe Alfano in merito all’omicidio in danno di Giuseppe Iannello (un boss barcellonese, n.d.r.)». Quindi avrebbe negato l’esistenza di più memoriali e le confidenze di Alfano sull’omicidio Iannello. L’ex pm sostenne l’accusa nel corso del processo di primo grado per la morte del cronista de “La Sicilia” Beppe Alfano, ucciso dalla mafia, e proprio con Alfano ebbe una costante frequentazione proprio fino alla mattina di quell’8 gennaio del 1993, il giorno in cui fu ucciso. La deposizione che ha costituito il punto fermo dell’accusa si tenne in due parti nel corso del maxiprocesso d’appello “Mare Nostrum” a capi e gregari della mafia tirrenica, il 6 e il 15 aprile del 2009. E fu necessitata dal fatto che qualche tempo prima nel corso di una precedente udienza alcuni difensori avevano chiesto di mettere agli atti un memoriale pervenuto al loro studio in forma anonima. Solo in un secondo momento Canali riconobbe la paternità del memoriale, e la corte decise di sentirlo in aula, acquisendo il documento agli atti. Proprio su questi fatti l’ex pm Canali è stato ascoltato in aula nei mesi scorsi, come teste, al processo Mori a Palermo dal collega Nino di Matteo. Una lunga deposizione tutti incentrata sull’omicidio Alfano e sulla latitanza del boss etneo Nitto Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto poco prima della sua cattura.

NUCCIO ANSELMO – GDS

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