7 marzo 2013
Il testo della telefonata durante la scalata della banca fu pubblicato sul 'Giornale' quando era coperto dal segreto istruttorio. Due anni e 3 mesi a Paolo Berlusconi. Per l'ex segretario dei Ds 80mila euro di risarcimento. L'ex premier accusato di rivelazione di segreto d'ufficio. Entro l'estate arriverà comunque la prescrizione.
Silvio Berlusconi è stato condannato un anno di reclusione per la vicenda dell'intercettazione Fassino-Consorte - quella con la celebre frase "allora abbiamo una banca" - avvenuta nel 2005 durante la scalata a Bnl da parte di Unipol, pubblicata sul Giornale quando era ancora coperta dal segreto istruttorio. Due anni e tre mesi sono stati inflitti a Paolo Berlusconi. L'ex premier era chiamato a rispondere dell'accusa di rivelazione di segreto d'ufficio. Il fratello per concorso in rivelazione di segreto d'ufficio, invece, mentre è stato assolto dell'accusa di ricettazione e, come chiesto dall'accusa, dal reato di millantato credito. La vicenda giudiziaria verrà comunque sepolta dalla prescrizione: i termini sono previsti per metà settembre.
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Ottantamila euro per Fassino. I giudici della quarta sezione penale del tribunale di Milano hanno disposto un risarcimento a carico di Silvio e Paolo Berlusconi di 80mila euro a favore dell'ex segretario ds Piero Fassino, parte civile al processo. Il risarcimento è stato disposto a titolo di provvisionale e il tribunale non ha disposto alcuna misura interdittiva nei confronti dell'ex premier. A Fassino i fratelli Berlusconi dovranno versare anche 10mila euro per le spese legali. Giovanni Consorte era l'allora presidente di Unipol, la compagnia bolognese che stava tentando la scalata alla Bnl. "Una sentenza che ristabilisce verità e giustizia e conferma come intorno a una espressione ironica sia stata costruita consapevolmente, per anni, una campagna di denigrazione e delegittimazione politica", ha commentato Fassino, oggi sindaco di Torino.
Berlusconi: "Persecuzione intollerabile". "E' davvero impossibile tollerare una simile persecuzione giudiziaria che dura da vent'anni e che si ravviva ogni qual volta vi sono momenti particolarmente complessi nella vita politica del Paese", è stato il commento di Silvio Berlusconi alla sentenza. "La sentenza del tribunale di Milano scomprova quanto sostengo da sempre - sostiene Berlusconi in una nota - Sono stato oggetto di migliaia di articoli di giornali e di trasmissioni televisive che hanno propagato ogni e qualsivoglia notizia di indagine sia coperta da segreto sia con divieto di pubblicazione. Ho presentato decine di denuncie in merito e mai e poi mai si è arrivati a un processo: in un caso hanno addirittura smarrito il fascicolo con la mia denuncia. E per la pubblicazione su un giornale non controllato in alcun modo da me, senza neppure portare a processo il direttore responsabile dell'epoca, mi si condanna perché avrei prima della pubblicazione ascoltato la intercettazione in oggetto. Mai l'ho ascoltata. Ma anche se l'avessi ascoltata, e non è vero, tutti hanno escluso che vi sia mai stata una mia compartecipazione a tale pubblicazione".
Il legale del Cavaliere: "Siamo a Milano...". Piero Longo, uno degli avvocati di Silvio Berlusconi, si aspettava la sentenza di condanna. "Non sono sorpreso perché essendo a Milano è questo il trattamento riservato a Berlusconi", è stato il, primo commento del legale, che si è tuttavia definito dispiaciuto e costernato" perché "ero assolutamente convinto che gli elementi a carico di berlusconi fossero inefficaci contraddittori, se non del tutto inesistenti. Mi chiedo cosa sarebbe succeso con altri imputati non a Milano". Dall'avvocato Longo anche una riflessione sul merito della fattispecie di reato contestata all'ex premier: "Credo che sia la prima volta che in Italia si viene condannati per violazione del segreto d'ufficio". Longo ha poi sostenuto che se in Cassazione venisse accolta la ricusazione nei confronti del giudice Maria Teresa Guadagnino (uno dei componenti del collegio e che è stato anche giudice nel processo di primo grado sul caso Mediaset), la sentenza potrebbe essere annullata. L'istanza di ricusazione era già stata bocciata dalla Corte d'appello di Milano e la difesa di Berlusconi ha fatto ricorso in Cassazione.
La denuncia di Di Pietro. L'inchiesta era nata in seguito alla denuncia sporta nell'ottobre 2009 dell'allora leader dell'Idv, Antonio Di Pietro, cui si era rivolto l'imprenditore Fabrizio Favata. Secondo la ricostruzione del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, Roberto Raffaelli, titolare della Research Control System, società che aveva messo a disposizione degli inquirenti le attrezzature per le intercettazioni dell'inchiesta su Unipol, rivelò all'imprenditore Eugenio Petessi e a Favata (già giudicati assieme a Raffaelli) il contenuto della telefonata e di "altre conversazioni intercettate", quando non erano ancora né "trascritte né sintetizzate nei verbali" degli investigatori e "quindi esistenti al momento dei fatti solo in formato audio". Questi ultimi, secondo l'accusa, ne parlarono con Paolo Berlusconi ("in affari al tempo dei fatti" con Favata "nella società I.P. Time srl"), il quale avrebbe ricevuto il nastro su una "pen drive", dopo l'incontro ad Arcore con il fratello, e lo avrebbe passato al quotidiano.
La pubblicazione dei nastri. Le intercettazioni vennero pubblicate il 31 dicembre 2005 e il 2 gennaio 2006 e suscitarono grande clamore e una tempesta di reazioni politiche che andarono avanti per settimane. Secondo l'ipotesi dei magistrati milanesi, la consegna di quell'intercettazione sarebbe stata un regalo per l'allora presidente del consiglio in vista delle successive elezioni politiche, dalle quali però uscì vincitore il centrosinistra. E l'ex premier avrebbe ascoltato quel dialogo ancora top secret e poi ringraziato, "assicurando gratitudine eterna" a chi, in particolare Favata, il 24 dicembre gli aveva portato a Villa San Martino quel cadeau cercando di ottenere in cambio denaro. Inizialmente il procuratore aggiunto Romanelli aveva chiesto l'archiviazione della posizione dell'ex capo del governo, ma il gip Stefania Donadeo ordinò l'imputazione coatta con conseguente rinvio a giudizio. E Fassino si era costituito parte civile, lamentando una danno "morale, politico ed esistenziale" e chiedendo un milione di euro di risarcimento ai fratelli Berlusconi.
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Tratto da: milano.repubblica.it