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12 gennaio 2012
Palermo. I pm di Palermo che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia sentiranno oggi, a Roma, gli ex esponenti della Dc Ciriaco De Mita e Arnaldo Forlani. I due politici, che all'epoca del presunto patto tra le istituzioni e Cosa nostra erano, rispettivamente, presidente e segretario del partito, verranno interrogati sulla vicenda relativa alla mancata conferma, a fine giugno del 1992, di Vincenzo Scotti a ministro dell'Interno. Scotti, sentito dalla Procura del capoluogo siciliano il mese scorso, ha ripercorso le vicende di quegli anni e ribadito di non avere mai capito perchè, nonostante le rassicurazioni ricevute dall'allora Guardasigilli Claudio Martelli, non gli venne confermato l'incarico al Viminale, passato a Nicola Mancino, e gli fu, invece, assegnata la guida del dicastero degli Esteri. Nell'interrogatorio reso ai pm Paolo Guido, Lia Sava, Nino Di Matteo e all'aggiunto Antonio Ingroia, Scotti ha riferito che la notte antecedente la nomina al vertice della Farnesina ricevette una telefonata da De Mita. «Mi chiese - ha spiegato - se volevo accettare il dicastero degli Esteri ma io rifiutai categoricamente». «Ovviamente - ha continuato Scotti - chiesi spiegazioni ai miei colleghi di partito sulle ragioni del mio avvicendamento, ciò feci anche con un'accorata lettera all'allora segretario Dc Forlani. Non ho mai avuto convincenti spiegazioni ma solo una missiva di risposta». Proprio su questo punto verrà sentito Forlani. Scotti ha anche raccontato che ad ottobre del 1992 l'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro gli scrisse, sempre a proposito della nomina alla Farnesina,: «se ci fossimo parlati forse le cose sarebbero andate diversamente». Anche Scalfaro, già interrogato dagli inquirenti palermitani, verrà risentito. La tesi investigativa ipotizzata dalla Procura è che Scotti, sostenitore della linea dura nella lotta alla mafia, tanto da firmare insieme a Martelli la prima legge sul carcere duro, dopo l'eccidio di Capaci, venne estromesso proprio per la sua intransigenza che mal si sarebbe conciliata con l'apertura di un dialogo con Cosa nostra decisa da parte delle istituzioni per porre fine alla strategia stragista. Un sospetto adombrato anche dall'ex ministro che ha parlato di un clima di isolamento politico subito in quel periodo in particolare dopo l'allarme da lui lanciato davanti all'Antimafia e alla commissione Affari istituzionali di un rischio attentati da parte di Cosa nostra. Andreotti lo definì una «patacca». Tra i bersagli indicati da Scotti, che aveva fonti autorevoli nei Servizi, l'ex ministro Calogero Mannino e l'esponente del Psdi Carlo Vizzini. Scotti ha raccontato anche di avere informato entrambi delle notizie ricevute. «Successivamente - ha detto ai pm - non ebbi occasione di approfondire particolarmente con il ministro Mannino le notizie circa possibili attentati nei suoi confronti. Certo è che si percepiva chiaramente la sua paura e ciò, in particolare, dopo l'uccisione di Giovanni Falcone». Sulla trattativa che, secondo i pm, avrebbe portato lo Stato a un ammorbidimento delle posizioni assunte sul carcere duro ai mafiosi (con la revoca di oltre 300 provvedimenti di 41 bis e la rimozione ai vertici del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria di chi aveva, invece, posizioni più intransigenti, come l'ex capo Nicolò Amato) sono stati sentiti tra gli altri, Mancino, lo stesso Amato e l'ex Guardasigilli Giovanni Conso.

ANSA

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