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11 novembre 2011
Palermo. La singolare nomina a vicecapo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria di Francesco Di Maggio, le manovre, passate anche attraverso la divulgazione di menzogne per mezzo della stampa, per tentare di condizionare la destinazione carceraria del boss Bernardo Provenzano e l'analisi dei documenti relativi alle revoche dei 41 bis ad alcuni mafiosi: sono i punti centrali della testimonianza resa ai pm di Palermo dal magistrato Sebastiano Ardita, dirigente del Dap dal 2002. I verbali con le dichiarazioni di Ardita, sentito nell'ambito dell'indagine sulla trattativa tra Stato e mafia, sono stati depositati agli atti del processo al generale di carabinieri Mario Mori che, secondo l'accusa, sarebbe stato uno dei protagonisti del «dialogo» tra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni. Il dirigente del Dap, che su questi temi ha scritto un libro dal titolo «Ricatto allo Stato», potrebbe essere citato a deporre a processo all'ufficiale. Ai magistrati, Ardita ha raccontato dell'anomala nomina a vicecapo del dap, dopo la rimozione dei vecchi vertici guidati da Nicolò Amato, di Francesco Di Maggio. Per ovviare al fatto che non aveva i titoli richiesti dalla legge fu fatto un decreto presidenziale ad hoc, a firma dell'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, che lo nominava dirigente generale dello Stato consentendogli di diventare il numero due del Dipartimento. Sotto la direzione di Di Maggio, allora retto da Adalberto Capriotti, a novembre del '93, vennero revocati 334 provvedimenti di 41 bis. Ardita ha aiutato i pm a ricostruire la documentazione interna del Dipartimento da cui emerge che la volontà di non rinnovare il carcere duro ai 334 mafiosi fu espressa in una sorta di istruttoria interna del Dap ancor prima di richiedere il parere delle forze di polizia. Infine il magistrato ha parlato di un'esperienza da lui vissuta nel 2006, dopo la cattura di Provenzano: al magistrato arrivarono voci su presunte dichiarazioni del figlio del boss Riina che, sapendo dell'arrivo del capomafia nel suo stesso istituto di pena di Terni, si sarebbe lamentato dandogli dello «sbirro» e alludendo così al suo ruolo nella cattura del padre. Voci false che, secondo una pista investigativa, erano finalizzate a far trasferire Provenzano in un altro carcere per far sì che questi potesse avere contatti col boss Piddu Madonia. Il tentativo fallì ma anche la stampa diffuse la notizia degli insulti di Riina. Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo e teste della trattativa, rivelò di aver dato la notizia ai giornali dopo averla appresa da un uomo dei Servizi. Segno di un reale tentativo di manovrare la destinazione carceraria del padrino.

ANSA

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