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Ci cercavano casa per casa, bussavano a ogni porta per trovare gli attivisti. Io mi nascondevo con le mie figlie, spostandomi continuamente, grazie a una rete di contatti  che dava l’allarme ogni giorno sugli spostamenti dei talebani” .

Razia Ehsani Sadat ha la voce rotta dal pianto quando racconta i suoi ultimi dieci mesi in Afghanistan. “Un inferno, non potete immaginare cosa sta accadendo lì, abbiamo bisogno di aiuto”. Razia è una  giornalista, lavorava in una tv locale, Tamadon tv, i talebani le hanno ucciso un fratello e un cognato. È hazara, fa parte cioè di quella minoranza etnica e religiosa (musulmani sciiti) perseguitata con particolare accanimento dei talebani.

È da sempre in prima linea  per i diritti delle donne che, con un salto indietro nel tempo, i talebani hanno azzerato: “Ho lottato vent’anni per vincere i pregiudizi e diventare giornalista” – spiega Razia. L’unica via di salvezza era la fuga all’estero, il miraggio di un passaporto che ha infine ottenuto dopo  una serie di estenuanti e rischiosi tentativi, vendendo tutto quel che possedeva per averlo. Perché i talebani fondano il loro potere non solo su violenze di ogni genere, ma anche sulla corruzione e sui traffici.

Razia è una dei 70 profughi arrivati in Italia grazie all’articolata rete umanitaria tessuta da Maria Grazia Mazzola, collega inviata del Tg1, che ha raccolto l’appello del direttivo dell’Afghanistan Women’s Political Participation Network, attiviste per i diritti umani. Mazzola ha messo in piedi tre accoglienze: i Salesiani per il Sociale, le Chiese Protestanti, la coop Una città non basta, insieme all’Unione Donne in Italia, la onlus “Federico nel cuore” creata dalla madre di una vittima di figlicidio, il Gruppo Abele di don Ciotti.

Un  ruolo importante lo hanno avuto le cure eccellenti del Servizio Sanitario Nazionale e dell’ospedale Bambino Gesù. Nella sede romana della delegazione italiana al Parlamento europeo i profughi raccontano le loro storie, insieme a chi li ha accolti  e curati e ai diplomatici del nostro paese impegnati l’anno scorso in Afghanistan nei giorni drammatici della presa del potere da parte dei talebani. 

Storie di speranza, ma ancora a metà del cammino. “Non siamo una Ong – spiega Maria Grazia Mazzola – ma una Rete di unità nella diversità per i più vulnerabili. Non si tratta di fare la carità, ma di ristabilire diritti allo studio, alla cure, al lavoro”. La sfida ora è quella dell’integrazione dei profughi. Il primo passaggio sarà il riconoscimento dei titoli di studio, tra loro ci sono ingegneri, programmatori, ostetriche. Questa impresa di solidarietà ci ricorda che la curiosità, il grande motore della nostra professione, è in fondo la capacità di sentire l’altro da noi, di guardare le cose da ogni lato, di scavare sotto la superficie. Una grande, mai conclusa inchiesta sull’umanità.

Tratto da: stamparomana.it

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