In 12 anni oltre mille scomparsi: "Ma la verità non muore mai"
di Michele Farina
Premi e pallottole: "Un giornalista vince il Pulitzer, cento vengono colpiti". Lo slogan dell’Unesco rende l’idea. Non è una fake news: negli ultimi 12 anni oltre mille reporter sono stati uccisi nel mondo. Su dieci omicidi, nove rimangono impuniti. Senza contare i feriti, i minacciati, quelli che vengono arrestati e condannati per il loro lavoro. Nel 2013 l’Onu ha fatto del 2 novembre la "Giornata Internazionale per porre fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti". La campagna social ha un titolo più secco: #TruthNeverDies. La verità non muore mai. Ma le persone sì. "La verità in guerra è la prima vittima" scriveva Eschilo 2.500 anni fa. Si sbagliava: anche nei conflitti di oggi le prime vittime sono i civili. Compresi quei civili che cercano e difendono la verità. Non sono fake news: al Newseum, il museo del giornalismo di Washington, c’è una parete di cristallo alta due piani dove brillano i nomi di migliaia di operatori dell’informazione a cui è stata sottratta la vita (c’è anche la nostra Maria Grazia Cutuli, uccisa in Afghanistan nel 2001). Secondo il "Committee to protect journalists" nel 2018 sono stati ammazzati finora 45 colleghi contro i 71 del 2017. Il bilancio di "Reporters without borders" segnalava per l’anno scorso 326 detenuti, 54 in ostaggio, 65 uccisi e due scomparsi. "Quando un giornalista viene assassinato - dice uno slogan Unesco - possiamo fermarci per un minuto di silenzio oppure fare molto rumore". Facciamo entrambi?
Alicia, trovata dal figlio sul pavimento
L’ha trovata il figlio ventenne, riversa sul pavimento. Picchiata a morte: Alicia Diaz Gonzalez aveva 52 anni. Scriveva di economia. È stata uccisa il 24 maggio a Monterrey, nord del Messico. Da gennaio collaborava con i quotidiani El Financiero e Riforma. C’è anche il suo nome tra gli 11 undici giornalisti uccisi dall’inizio del 2018, la 44esima vittima nei sei anni della presidenza di Enrique Peña Nieto, il periodo più insanguinato per gli operatori dell’informazione. Da una parte la criminalità organizzata, i cartelli della droga. Dall’altra i pezzi corrotti dello Stato. "Artículo 19", la maggiore organizzazione per la difesa dei giornalisti messicani, ha contato dal 2012 al 2018 duemila aggressioni, il 48% per mano diretta di funzionari pubblici. A farne le spese uomini e donne, giovani e veterani. I giornalisti vengono uccisi per strada, a casa. Quest’anno uno è stato ammazzato mentre andava alla recita del figlio a scuola.
La videocamera esplosiva: 10 colpiti in un giorno
Lunedì mattina di sole, tiepido aprile a Kabul: una moto esplosiva viene fatta saltare in aria vicino al quartier generale Nato. Solito rito: la gente si allontana, arrivano i giornalisti. Almeno una ventina: fotografi, cameramen, uomini e donne con il taccuino e la targhetta press. Tra loro, un giovane con una videocamera che non è fatta per riprendere. È imbottita di esplosivo: venti minuti dopo il primo boato, la videobomba scoppia tra i reporter. Muoiono in nove. I corpi avvolti in lenzuoli bianchi portati alla sepoltura. Poche ore prima, un collega era stato ucciso a Khost. Dieci vittime in un giorno, in un Paese che pure è tra i primi sei più pericolosi per chi fa giornalismo (con Iraq, Siria, Filippine, Somalia e Messico). Pericolo e orgoglio: in Afghanistan lavorano nell’informazione 1.761 donne secondo il Centre for the Protection of Afghan Women Journalists, tra cui 764 reporter professioniste.
Il caso Khashoggi e il senso di impunità
Jamal Khashoggi, naturalmente: il caso più eclatante, il mistero di un ovvio omicidio. Un uomo entra nel consolato saudita di Istanbul e non esce più. Chi volete che l’abbia ucciso? I silenzi iniziali, le mezze ammissioni, le versioni ridicole e spudorate di Riad, la Turchia di Erdogan che si erge paladina del Diritto quando è il Paese che vanta il maggior numero di reporter in prigione. Che cosa avrebbe scritto, della sua stessa fine, il giornalista dissidente che nell’ultimo articolo scritto per il Washington Post citava la libertà di espressione come il bene mancante più importante del Medio Oriente? Forse non lo avrebbero sorpreso il nauseante senso di impunità che proviene dai potenti sauditi, o il teatrino internazionale (molto americano) di leader che devono recitare la parte degli indignati pur senza nascondere che hanno ben altro a cui pensare. Un giornalista morto, un inciampo diplomatico.
L’ultimo viaggio del conduttore di Kalsan Tv
Mohammed Ibrahim Gabow si era preso qualche ora di libertà: con un collega e i suoi due bambini l’anchorman di Kalsan Tv stava guidando lungo una strada di Mogadiscio quando una bomba piazzata sotto il suo sedile è esplosa uccidendolo. Illesi il collega e i figli che gli stavano accanto. Un omicidio ad personam è cosa rara in Somalia così come in altri Paesi in guerra, dove i mandanti non si fanno problemi a mettere in conto i danni collaterali. Kalsan Tv è una piccola tv satellitare britannica. Gabow lavorava negli studi somali. Faceva tutto. La sua morte è rimasta, da copione, impunita. Per 9 giornalisti uccisi su 10 - denuncia l’Onu - giustizia non viene fatta. La Somalia conta almeno 68 reporter ammazzati dal 1991 a oggi: è interessante notare che la lista comprende 29 reporter di guerra e ben 39 giornalisti che seguivano la politica. Come se la seconda fosse una continuazione della prima.
corriere.it
#TruthNeverDies. Quei giornalisti uccisi tra bombe e bugie: oggi la giornata Unesco
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