Catania. "Ho aspettato dieci anni per mettere insieme una squadra di eccellenza. Chi ha visto Gifuni mi dice che è bravissimo, che è dentro il personaggio con una ricerca filologica". Claudio Fava, sceneggiatore del film con Michele Gambino e Monica Zapelli, non è mai andato sul set.
Perché questa scelta?
"Ho preferito lasciare liberi gli attori. Non volevo che si sentissero obbligati a cercare una conferma nel mio sguardo. Vedrò il film quando sarà finito, ho preferito aspettare. So che Vicari e Gifuni proveranno a raccontare la storia senza i grumi di eroismo che spesso stanno attaccati a questi personaggi".
Cosa la preoccupava di più?
"Il recupero della dimensione umana. Mio padre aveva grande rigore intellettuale e curiosità. Non era un Don Chisciotte ma un intellettuale generoso. Il fatto che avesse deciso di costruire la sua avventura professionale con giovani dell’età del figlio, la dice lunga sul temperamento".
La caratteristica principale?
"L’estrema apertura. Aveva il dono di sapersi fidare dei ragazzi a cui insegnava il mestiere, rispetto a una generazione di giornalisti, la sua, che aveva difficoltà a mettersi in discussione".
Da figlio com’era il rapporto?
"Era alla mano ma si faceva rispettare con uno sguardo, faceva cazziatoni memorabili... Io ero quello che ne prendeva di più".
Catania e il delitto Fava: cos’è cambiato negli anni?
"È come se fosse tutto sospeso, Catania non ha fatto i conti con questa storia: sono passati 34 anni e il 5 gennaio non ho mai incontrato un sindaco alla commemorazione di mio padre. Perché alla fine un pezzo della città è rimasto immobile, il ruolo egemone della razza padrona è inalterato. Come se l’ordito avesse tenuto e la storia di Fava continuasse a essere una variabile impazzita".
(s. f.)
la Repubblica
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