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nuzzi fittipaldi facetofaceCon Fittipaldi e Nuzzi finisce alla sbarra la libertà di informazione
di Francesco Merlo
La sorpresa è che la Chiesa di Francesco, il Papa che sta illuminando les Caves du Vatican, rischi al tempo stesso di legittimare il buio del diritto medievale, un ingranaggio inquisitorio che, a parte i ceppi e le tenaglie, è ancora quello della Tosca. Lunedì prossimo, infatti, alla vigilia del Giubileo della Misericordia, saranno interrogati nell’aula del Vaticano i due cronisti italiani, Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, processati senza i loro avvocati di fiducia e senza le garanzie previste da tutti i codici dell’Occidente civile. L’imputazione è di concorso nella rivelazione dei documenti riservati della Commissione di indagine sulle finanze vaticane istituita proprio da Papa Francesco per ripulire appunto i bimillenari sotterranei che già André Gide avrebbe voluto demolire.

A fornire i documenti della Commissione a Fittipaldi e a Nuzzi sarebbero stati almeno due dei tre imputati di questo processo che entra nel vivo il 7 dicembre: il presidente della Commissione stessa, lo spagnolo monsignore Balda (detenuto); il suo segretario particolare Nicola Maio; e Francesca Immacolata Chaouqui che, in quella commissione, era una sorta di perpetua del monsignore. Ha spiegato il Papa ai giornalisti: «Vorrei dirvi anzitutto che rubare quei documenti è un reato. È un atto deplorevole che non aiuta».

Ma è provato, ed è agli atti del processo, che i cronisti non hanno rubato nulla alla Commissione. Hanno infatti avuto i documenti dallo stesso Balda e da altre fonti curiali. Perché li hanno dati proprio a loro? È vero che il buon giornalista ha il dovere di chiedersi « cui prodest? », ma deve comunque andare avanti e pubblicare tutte le notizie purché siano attendibili e di pubblico interesse. Anche l’audio rubato al Papa non è opera di Nuzzi che non lo ha divulgato ma si è limitato a trascriverne i passi più importanti, sempre legati ai problemi economici del Vaticano.
 
Fittipaldi e Nuzzi, in quantità e in forma diversa, hanno rivelato nei loro due libri, Avarizia e Via Crucis, quel che la Commissione papale aveva scoperto nel 2013 e quel che il Papa, da due anni ormai, cercava di sanare senza riuscirci del tutto. Ha detto Francesco: «Io stesso avevo chiesto di fare quello studio, e quei documenti io e i miei collaboratori già li conoscevamo bene e sono state prese delle misure che hanno incominciato a dare dei frutti, anche alcuni visibili». E ancora: «Voglio assicurarvi che questo triste fatto non mi distoglie certamente dal lavoro di riforma che stiamo portando avanti con i miei collaboratori e con il sostegno di tutti voi».
 
Il Papa ci ha dunque assicurato che continuerà a battersi (ogni volta che ci riuscirà, aggiungiamo noi) anche contro la Curia, contro la segreteria di Stato, conto il Clero romano e contro la Nomenklatura che già Benedetto XVI aveva apertamente bastonato perché «deturpano» il volto della Chiesa. Avviando un’operazione di trasparenza che non ha precedenti nella storia, Francesco vorrebbe sapere cosa resta, in quei famosi sotterranei, delle scostumatezze e dei commerci che diedero vita e vigore alla riforma protestante, degli eccessi denunziati dalla poesia di Dante, delle scelleratezze dei Borgia, dei lussi faraonico-curiali di quel potere temporale che ancora faceva dire a Pasolini che in Vaticano «il codice non è mai letto e applicato cristianamente», e anzi proprio lì «Cristo è lettera morta».

I codici di cui in quel suo scritto corsaro parlava Pasolini, che qualche giorno fa è stato celebrato dall’Osservatore romano come «il poeta del verbo cristiano», sono il Codice penale del 1889 — il codice Zanardelli — e quello di Procedura del 1913. Pasolini, che era un ateo innamorato di Cristo, avrebbe voluto trovare in quelle norme lo spirito del Vangelo. A noi basterebbe cominciare con l’articolo 21 della Costituzione italiana, quello che tutela la libera stampa, e con l’articolo 51 del nostro attuale Codice penale, quello che esclude la punibilità del giornalista che esercita il diritto di cronaca. Sono ovvietà ribadite in tutte le Carte e le Convenzioni internazionali, da quella di Nizza a quella di New York a quella di Strasburgo.

E c’è anche la carta del Vangelo. Chissà quanto è cristiano non potere scegliersi gli avvocati. Fittipaldi aveva indicato Giandomenico Caiazza e Nuzzi aveva indicato Caterina Malavenda. Ebbene, il presidente della Corte d’Appello, Pio Vito Pinto non li ha ammessi «attesa la natura del procedimento nel caso». Non una parola di più. Fittipaldi e Nuzzi stanno dunque subendo avvocati rotali, pagati e reclutati dai loro accusatori. Gli avvocati rotali sono infatti quelli abilitati a patrocinare davanti a tutti i tribunali del Vaticano, non solo nei casi di matrimoni annullati ma anche nei processi penali e nelle cause civili. E spesso avvocati non rotali hanno affiancato quelli rotali. Ma a Fittipaldi e a Nuzzi è stato detto di no «attesa la natura del procedimento nel caso».

E, pensate!, in aula gli imputati non possono stare vicino ai loro avvocati: un poliziotto ha il compito di tenerli separati per non farli parlare. E il tribunale, se vorrà, potrà interrogare ciascun imputato facendo uscire dall’aula tutti gli altri, un po’ come faceva il capitano Bellodi per confondere i mafiosi Pizzuco e Zecchinetta, “due spugne di infamità”. Del resto Fittipaldi non ha neppure la possibilità di conoscere le liste dei testi richiesti da Nuzzi sinché il giudice non leggerà gli elenchi in aula. Di più, Fittipaldi e Nuzzi non hanno il diritto di avere copie degli atti che li riguardano perché i loro avvocati rotali sono stati diffidati dal dargliele. E si potrebbe continuare a recitare questo breviario di illiberalità e di violazioni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che pure il Vaticano ha sottoscritto.

Ma al di là dei codici e dei giudizi-ordalie, proprio perché il Vaticano è l’ultima monarchia assoluta del mondo, nessuno capisce come sia possibile che proprio questo Papa permetta un simile processo a due giornalisti che sono riusciti a raccontare in due libri di analisi economica e di reportage, 600 pagine complessive e neppure una smentita, una parte di quegli affari sporchi che lui combatte. È strano che il Papa voglia punire i cronisti che hanno rivelato al mondo la vita da nababbi di quei cardinali che egli denunzia come «faraoni». Il Papa permette che il cardinale Bertone continui a vivere nel superattico ristrutturato con i fondi stornati dall’ospedale pediatrico Bambino Gesù e vuole condannare (sino ad otto anni di galera) i cronisti che hanno svelato non solo quell’odioso privilegio, ma anche l’esistenza della fabbrica dei santi a pagamento, le truffe dello Ior, i conti bloccati a padre Georg, l’uso privato del patrimonio immobiliare… C’è infine in Vaticano un uso dell’informazione, della disinformazione e della mala informazione che andrebbero — queste sì — processate e stroncate dal Papa. In un vortice di vendette, ricatti e tradimenti qualcuno della segreteria vaticana ha per esempio messo nel ventilatore le conversazioni private tra il monsignore e la sua titolatissima perpetua: debolezze della carne che forse sono diventate oggetto di ricatto e che nulla hanno a che vedere con questo processo. Il tentativo è quello di far credere che Fittipaldi e Nuzzi non abbiano fatto giornalismo ma abbiano messo le mani nella sporcizia, abbiano rovistato nella spazzatura, si siano sporcati “nella cacca”. Dunque, alla fine, tutta l’inchiesta, ordinata dal Papa, sarebbe robaccia screditata visto che monsignor Balda è raccontato come un porcellone ricattato e depresso, la signora Chaouqui come una prosseneta ninfomane, i giornalisti come cronisti morbosi e voyeur. E invece i due libri sono castissimi elenchi di numeri, informazioni economiche fredde e persino noiose, conversazioni, analisi, documenti…, insomma neppure l’ombra di
una sconcezza, di una scorrettezza, di un furto, di una menzogna. La verità è che meriterebbero un premio e non un processo Fittipaldi e Nuzzi, già premiati dalle vendite e dalla bella pubblicità che sempre gli sciagurati censori finiscono col fare ai censurati.

repubblica.it

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