Giudici: «Erano lì, lo dice il Dna, ma le tracce non sono di nessuno dei sospettati»
di Giovanni Biancone
La foto, la banda della Magliana, la telefonata e il mistero dei reperti distrutti o spariti. Tutti i nodi irrisolti dell’omicidio 40 anni dopo
L’ultima suggestione riguarda la banda della Magliana, come in ogni mistero italiano (e romano, in particolare) che si rispetti. Perché in una delle foto scattate all’Idroscalo di Ostia, la mattina del 2 novembre 1975, tra la folla di curiosi radunata intorno al cadavere di Pier Paolo Pasolini sembra spuntare il volto di Maurizio Abbatino, all’epoca ventunenne e già noto agli archivi di polizia, che di lì a un paio d’anni avrebbe contribuito alla nascita della gang. Gli avvocati che hanno rappresentato la parte civile nella terza indagine sull’omicidio di Pasolini avrebbero voluto che Abbatino - arrestato nel 1992 in Venezuela, «collaboratore di giustizia» da una ventina d’anni - venisse interrogato; per sapere se era davvero lui, perché fosse lì, se nella banda s’è mai detto qualcosa sull’assassinio del poeta. Ma il giudice dell’indagine preliminare ha detto no. «Priva di realistico impulso investigativo», ha scritto nel decreto di archiviazione del 15 maggio scorso, «appare la richiesta di sentire il noto pregiudicato, ed effettuare riscontri del Dna su tutti gli appartenenti alla banda della Magliana».
Il giudice, d’accordo con il pubblico ministero, ha ritenuto che quella pista, imboccata a quarant’anni di distanza, non poteva condurre a risultati utili per imbastire un processo. E l’ha abbandonata subito. Ma a parte il «capitolo Abbatino», il fascicolo giudiziario riaperto nel 2010, trattato come un cold case e chiuso dopo cinque anni di nuove verifiche, contiene novità importanti. Che non risolvono l’enigma ma certificano una volta di più (con prove scientifiche, stavolta) la tesi dell’agguato di gruppo. Una trappola organizzata. Rimasta senza colpevoli anche perché l’unico condannato - Pino Pelosi, all’epoca minorenne - da quarant’anni dice bugie. Depista. A ciò si deve aggiungere l’imperizia (solo imperizia?) che contribuì a inquinare la scena del crimine, e pure questa sembra una costante di quella stagione di stragi e omicidi eccellenti: dall’eccidio di piazza della Loggia a Brescia (1974) al sequestro e successivo assassinio di Aldo Moro (1978).
Passando per l’incomprensibile decisione di distruggere l’Alfa Romeo Gt 2000 di Pasolini, a bordo della quale fu arrestato Pino Pelosi la notte del delitto e con cui - confessò subito - lui stesso aveva investito e ucciso il poeta. Alcuni reperti utili per nuove analisi con le moderne tecnologie (i frammenti del rivestimento interno, le «incrostazioni di materiale rossastro» trovate nella parte inferiore e sul tetto della macchina) sono spariti; l’Alfa 2000 fu rottamata all’inizio degli anni Ottanta, su decisione della cugina della vittima. L’avessero avuta ancora a disposizione, i carabinieri del Ris avrebbero forse potuto individuare e verificare nuove tracce utili alle indagini. Così gli investigatori in camice bianco hanno lavorato solo sul materiale rimasto a disposizione, recuperato dal museo criminologico di Roma: gli indumenti di Pasolini e quelli di Pelosi, assi di legno e altri oggetti trovati sul luogo del delitto.
Ne è stato estratto il Dna del poeta e quello del suo «assassino ufficiale», ma le prove di laboratorio hanno permesso di individuare il profilo genetico di almeno altre tre persone, «soggetti ignoti» numero 1, 3 e 4. Le loro tracce sono state trovate sulla parte interna anteriore dei jeans indossati da Pasolini, sulla maglia di lana a maniche lunghe che aveva Pelosi e su un plantare lasciato dentro la macchina. Secondo il giudice, «la natura, i punti e le modalità di rinvenimento, sembrano far propendere per una concomitanza con il fatto delittuoso». Lasciate durante la colluttazione e l’omicidio, quindi. I carabinieri hanno anche confrontato quei frammenti di Dna con i «campioni di materiale biologico» appartenenti a circa trenta persone sospettabili di aver preso parte all’agguato (o ai loro parenti, nel caso dei morti) ma non si è arrivati a stabilire alcuna identità. Non sono le tracce dei fratelli Borsellino, ad esempio, i due «balordi di borgata» accusati da Pelosi in successive e altalenanti deposizioni; né di Giuseppe Mastini detto «Johnny lo zingaro», un altro pregiudicato ex ragazzo di strada che a più riprese fu accomunato con l’omicidio Pasolini; né di «Ninetto er meccanico», al secolo Antonio Pinna, vicino al clan dei Marsigliesi, scomparso nel nulla nel 1976. Il fatto che i loro profili genetici non siano stati trovati sui reperti non significa che non ci fossero, ma di sicuro - per «incontrovertibile accertamento», scrive il giudice - c’erano almeno altre tre persone mai identificate.
Nelle indagini coordinate dal sostituto procuratore di Roma Francesco Minisci, molti testimoni dell’epoca sono stati sentiti per la prima volta. Il che alimenta i dubbi sugli accertamenti di quarant’anni fa. Nemmeno l’uomo citato da Oriana Fallaci in un articolo su L’Europeo di tre settimane dopo il delitto - un barista che vicino alla stazione aveva sentito una persona parlare al telefono, due giorni prima dell’agguato, mentre si accordava con altri per picchiare una persona - era stato mai interrogato. Individuato e rintracciato dagli investigatori dell’ultima inchiesta, ha ricordato l’episodio, «precisando che il telefonista, nel corso della conversazione, profferiva la frase “mi raccomando, ho un appuntamento con Pasolini, fatevi trovare lì”. Aggiungeva che il telefonista era in compagnia di altri due ragazzi». Guardando una fotografia di Pelosi il barista ha aggiunto che poteva essere uno dei tre, ma a tanti anni di distanza è un elemento ormai inutilizzabile. Al pari delle testimonianze - più di trenta - degli abitanti delle baracche dell’Idroscalo di Ostia, molti ascoltati per la prima volta, che ricordano i rumori e le voci di quella notte.
Anche per questo il delitto Pasolini rimane un rebus: omicidio collettivo (come del resto avevano stabilito i primi giudici che condannarono Pelosi «in concorso con ignoti», sentenza inopinatamente ribaltata in appello, quando il condannato fu considerato l’unico colpevole) dai mille moventi possibili. Tutti plausibili: da quello omosessuale (sebbene non nella versione di Pelosi), alla vendetta politica contro l’intellettuale comunista, alla necessità di far tacere una voce per ciò che aveva detto o avrebbe potuto dire ancora (sulle stragi, o sugli intrecci economico-mafiosi). Ma nessuno provato. Un poeta assassinato a due passi dal mare, l’ennesimo mistero italiano irrisolto.
roma.corriere.it
In foto: Pier Paolo Pasolini (© Letizia Battaglia)
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