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franciosi-gianfranco-videoinchiesta-corriereLa sua storia raccontata nel libro «Gli orologi del diavolo», scritto con Federico Ruffo
di Antonio Castaldo/Corriere.it - 6 aprile 2015
Carta vetrata e pennello. Ripulisce e smalta. Gianfranco detto Gianni Franciosi è al lavoro nel suo cantiere in riva al Magra. Costruisce, restaura e mette in acqua barche a motore. La sua specialità sono gli offshore, fuoribordo dalla prua affilata come una sciabola e la potenza per volare sulle onde. Nel 2006 la fama di mago dell’elica gli procurò un cliente a dir poco scomodo, il re del narcotraffico europeo Elías Piñeiro, anello di congiunzione tra i narcos colombiani e le mafie di mezz’Europa. D’intesa con lo Sco della questura di Genova e la Dda, Franciosi per 4 anni ha continuato a sfornare gommoni, moto d’acqua e barche per i trafficanti spagnoli. Imbarcazioni talmente veloci da seminare qualsiasi motovedetta, e da mettere in difficoltà persino gli elicotteri. Ma anche molto difficili da pilotare, tanto che Piñeiro pretese che fosse lui stesso a guidarli. Armato di registratore e segnalatore gps, Franciosi ha consegnato alla polizia italiana e spagnola un’enorme quantità di materiale investigativo. E infine li ha portati a bordo della Doña Flor, la prima e unica nave madre del narcotraffico bloccata in Europa. Il portacontainer, un supermercato della droga in alto mare, serviva i clan mafiosi di mezz’Europa, con in testa i Di Lauro di Napoli. Con i motoscafi, i boss raggiungevano la nave e facevano il pieno. Proprio come avrebbe dovuto fare Franciosi, se non si fosse fermato pochi chilometri prima dell’abbordaggio, per lasciare via libera alla polizia. Grazie a lui, sono stati sequestrati 5.664 kg di cocaina in quella circostanza, e diverse altre migliaia di kg in altre tre operazioni. Decine di milioni di euro in contanti. E una montagna di orologi da 30 mila euro ciascuno, gli “Orologi del diavolo”, come s’intitola il libro scritto con il giornalista Federico Ruffo e pubblicato da Rizzoli, che ora racconta la sua incredibile vicenda. Da infiltrato, osannato dagli investigatori per la capacità di adattarsi e improvvisare, a testimone di giustizia in perenne contrasto con il sistema di protezione, da cui è uscito polemicamente dopo appena due anni di tutela.

«Ebbene sì, dopo tutta la fatica che ho fatto, i rischi che ancora adesso corro, il carcere che mi sono fatto per non far saltare la copertura, una medaglietta almeno me la sarei aspettata. E invece eccomi qui, a tirare avanti tra mille difficoltà. Abbandonato, anzi di più, tradito». Gianni Franciosi oggi ha 37 anni e la barba che è diventata bianca prima del tempo, per la paura e lo stress di una vita ad altissima tensione. Durante il primo viaggio organizzato da Piñeiro, alla guida di un gommone che avrebbe dovuto consegnare a Barcellona, le cose andarono male e fu arrestato. La polizia italiana andò a recuperarlo 4 mesi dopo (i tempi si erano accorciati velocemente e la missione non era stata ancora autorizzata). Ma il prezzo per uscire era una dichiarazione, in cui ammetteva di essere un confidente: «Ma sarebbe stato come firmare la mia stessa condanna a morte», spiega Giannino, tra una pennellata e l’altra. In cella rimase altri tre mesi. E quando uscì era agli occhi del boss ancora più attendibile di prima. Grazie a questa credibilità, e soprattutto grazie all’abile lavoro di copertura degli uomini dello Sco di Genova, Giannino è arrivato ad essere un uomo di fiducia del capoclan. Il pilota che avrebbe dovuto guidare nel mezzo dell’oceano un tredici metri capace di toccare le 96 miglia marine, 150 chilometri orari. Ed effettivamente quel viaggio lo fece. Ma senza arrivare a destinazione. La nave container stracarica di cocaina fu invece abbordata dagli agenti del Greco, le forze speciali della polizia spagnola.

Entrato nel programma di protezione con la compagna e i 4 figli piccoli della donna, Franciosi è stato trasferito da Bocca di Magra a Padova. Quindi in Sardegna, di nuovo ad Arezzo. E infine, dopo una serie di contrasti con gli uffici del Viminale, la decisione di uscire, e di esporsi personalmente ai rischi di una ritorsione: «Mi vennero a cercare due giorni dopo gli arresti», racconta. Più recentemente qualcuno ha lasciato sul parabrezza dell’auto quattro proiettili. Dopo qualche settimana altri proiettili sono stati trovati appesi al cancello del suo cantiere: «Io lo so che sono un morto che cammina, non faccio mai programmi a lunga scadenza». Se fosse rimasto sotto protezione, avrebbe corso meno rischi: «Certo, ma a che prezzo?». La storia di Gianfranco Franciosi è drammaticamente simile a quella di molti altri testimoni di giustizia. Persone che hanno fatto il proprio dovere, sapendo di correre dei perico: «Attualmente in Italia esistono 88 testimoni di giustizia, sparsi in tutto il Paese. Di questi soltanto 32 sono ancora sottoposti al programma speciale di protezione, gli altri 56 hanno rinunciato di loro volontà o hanno visto ritirato il loro programma», secondo Federico Ruffo, coautore degli «Orologi del Diavolo», queste cifre da sole bastano a spiegare il disagio che vive la maggior parte dei testimoni di giustizia. Del resto è un esistenza complessa anche soltanto da immaginare: «Ti teletrasportano in luoghi che non conosci - spiega Franciosi - tra gente mai vista prima, e al terrore che ovunque ti perseguita, si aggiunge l’obbligo di non scoprirsi. Non puoi lavorare, perché non puoi usare i tuoi documenti. E anche fare una cosa banale come iscrivere i figli a scuola diventa un impresa». Si sopravvive coi soldi spediti da Roma: «Che a volte tardano, e ti ritrovi con l’acqua alla gola, e nessuno è in grado di aiutarti». Se a Franciosi chiedi il motivo per cui ha lasciato la protezione, lui risponde secco: «Per la mancanza di umanità». Poi segue aneddoto: «Pioveva da settimane e io chiesi un’auto perché la mia era inutilizzabile, dal momento che i trafficanti la conoscevano benissimo. Chiamai il mio referente e gli esposi il problema della pioggia, la difficoltà di accompagnare i bambini a scuola sotto l’acqua. E lui sai che mi rispose? Si compri un ombrello più grande».

video.corriere.it


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