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battaglia-letizia-c-pasolinidi Margherita Reguitti - 6 marzo 2015
Ritratti inediti di Pier Paolo Pasolini scattati dalla fotografa Letizia Battaglia nel 1972 e recentemente ritrovati, sono esposti fino al 31 marzo nella mostra "Pasolini alla casa della madre" nel Centro studi dedicato al poeta e scrittore a Casarsa della Delizia. Ritratti intensi che sono stati i primi di una serie dedicata a grandi uomini "Invincibili", fra i quali Ezra Pound, Freud e Joyce, pure esposti nella personale. Opere che dopo la mostra, curata da Angela Felice, che assieme a Giovanna Calvenzi, Giulia Borgese e MariaChiara Di Trapani, firma anche il catalogo, resteranno di proprietà del centro. Palermitana, 80 anni oggi, è nata infatti il 5 marzo 1935, Letizia Battaglia è considerata una delle fotografe italiane più note nel mondo. Fotoreporter dagli anni '70 per il quotidiano siciliano "L'Ora", ha documentato e denunciato i delitti di mafia in Sicilia. Sue le foto dell'omicidio di Piersanti Mattarella e di Andreotti accanto ai Salvo, scatti quest'ultimi acquisiti durante il processo a Cosa nostra. Fra i molti premi che le sono stati assegnati, è stata la prima donna europea a ricevere nel 1985 a New York il prestigioso "Premio Eugene Smith". Sue personali sono state allestite in Europa, America e Canada. Le sue fotografie sono state sia documenti per combattere la mafia, sia racconti di vita di donne e di bambini, vittime innocenti, testimonianze di resistenza civile. Molte le pubblicazioni che l'hanno fatta conoscere in Italia e all'estero. Durante l'infanzia è vissuta anche a Trieste.

Cosa ricorda di Trieste?
«Tutto, la casa dove abitavo con la mia famiglia in via San Francesco, gli abiti bianco, rosso e verde che vestivamo per testimoniare che eravamo italiani, i giochi nei giardini, l'arrivo delle truppe slave e gli scontri a fuoco. Avevo una decina d'anni e con mamma e mio fratello avevano raggiunto papà marittimo in città. Dalle finestre vedevamo uomini che sparavano, non capivo che questo significava morte. Amavo disegnare e andare in bicicletta, mi divertivo anche quando si correva nei rifugi. Era un gioco di bimba felice, senza ombre. I ricordi più recenti risalgono al 2007, quando sono venuta a ritirare un premio importante (Premio Reporter città di Trieste, ndr), mi è piaciuto molto ritornare dopo 70 anni».

Come ha incontrato Pasolini e scattato le foto in mostra a Casarsa?
«Lo incontrai in anni per me tormentati, era il 1972. Ero in fuga da un marito che non mi capiva, cercavo un contatto con le mie istanze interiori e solo la psicoanalisi mi diede la forza di arrivare a Milano. Pasolini fu una luce, un mito, lo andai a cercare con la mia macchina fotografica. Ancora non ero e non sapevo che sarei diventata una fotografa, ma scattavo. Lui era quello che io volevo: la vita sincera, pulita, drammatica e coraggiosa. In sala mi vergognavo, la mia macchina faceva troppo rumore, ma gli feci questi scatti con tanto amore e rispetto. Anche quando sono tornata a Palermo è stato per me un riferimento per il suo amore della libertà di pensiero, il coraggio di esprimere se stessi e il distacco dal potere».

Gli parlò?
«No, lui non si accorse di me, non ci siamo mai conosciuti ma io lo porto con me come un dono. Ritrovando questi negativi in un cassetto ho deciso di stamparli e li ho trovati belli. A distanza di anni ho notato una cosa particolare: le mie inquadrature sono le stesse che lui fece di sé nei suoi autoritratti. Lo stesso sguardo diretto, intenso, pensieroso».

Perché ha scelto di donarle al centro di Casarsa?
«Non avrei potuto donare queste fotografie a una fondazione qualunque, stanno bene là nella casa materna, come ben spiega il titolo della mostra, voluta e curata dalla meravigliosa Angela (Angela Felice direttore del centro PPP di Casarsa, ndr)».

Come fu il ritorno a Palermo dopo l'esperienza milanese?
«Palermo è la mia malattia, sono ritornata ed è incominciata la mia storia fotografica. Lavoravo per un giornale comunista, si affrontavano con forza gli argomenti di mafia e dell'antifascismo. Era una resistenza a un potere orribile, un non voler essere complici. Furono anni pesanti, morirono persone meravigliose che amavamo, poliziotti, magistrati e politici. Ma la tristezza non è scomparsa, finiti sono gli omicidi di uomini delle istituzioni. Ma i mafiosi continuano ad ammazzarsi fra loro. Io ho fatto la mia parte. Della mia fotografia di Andreotti accanto al mafioso non ho il negativo, lo consegnai alla magistratura quale prova nel processo contro Cosa nostra».

Che rapporto aveva con i giudici Falcone e Borsellino?
«Non si può dire che fossi loro amica, io li adoravo, ma loro erano i magistrati e io la fotografa. Falcone non si voleva far riprendere, per evitare accuse di protagonismo e attacchi sulla stampa. Fra noi c'erano sguardi di appoggio, complicità e amore, era un uomo che credeva in ciò che faceva. In Sicilia c'erano giudici corrotti, sono arrivati questi bravi e sono stati ammazzati perché volevano fermare la mafia. Voglio ricordarli: Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Di tutto quel sangue rimane una ferita dentro per sempre».

Come ha avuto la forza di non arrendersi?
«Mi hanno aiutato persone che non conoscevo, la psicanalisi, che mi ha liberato dal mio inferno personale, la bellezza morale e l'aurea di queste persone straordinarie e di tante altre».

Lei è stata parlamentare e assessore: com’è stata l'esperienza politica?
«Orribile come deputato, meravigliosa come assessore. Come fotografa denunciavo ma come amministratrice facevo cose per la mia città. Piantavo alberi, davo casa a chi non l'aveva, la gente aveva fiducia perché facevo onestamente, con disciplina e amore. Per questo ho trascurato per 10 anni la fotografia».

Come è cambiato il suo modo di fotografare?
«Mentre ero fotoreporter pochi mi dicevano che ero brava, i miei scatti erano solo documenti. Poi ho incominciato a fare foto nelle quali mettevo delle cose importanti, dei pensieri, delle riflessioni. È stato allora che i musei a New York, a Parigi e in Europa hanno iniziato a chiedermi di fare mostre. Il mio lavoro, oltre che a me, dava qualcosa alla gente. Dunque non mi appartiene più, sono storie di tutti. Dopo tante immagini distrutte ho iniziato a scegliere cosa tenere per mostrare e condividere pensieri ed emozioni. Io continuo a sentirmi modernissima, ho la testa avanti nella costruzione di un futuro, per questo amo soprattutto i giovani e ne sono riamata».

Tratto da: ilpiccolo.gelocal.it

Foto © Letizia Battaglia

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