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franciosi-giancarloA cura della redazione delle “iene”
3 marzo 2014
Da quando lo conosco non l’ho mai visto piangere, neanche davanti ai momenti peggiori, mai un momento di debolezza. Quando dalla Prefettura di La Spezia lo pressavano per sapere cosa avesse ci avesse raccontato nella sua prima intervista da ex infiltrato tra i narcos. Quando il Viminale cercava di fargli capire che non gradivano pubblicità attorno alla sua storia. Perfino quando sul vetro dell’auto blindata (pagata di tasca propria) con cui porta a scuola i figli qualcuno ha lasciato due proiettili bagnati nel kevlar, di quelli anti-blindatura, per dirgli “sappiamo dove sei, sappiamo cosa fai”, Gianni non ha ceduto, neanche per un istante.

Si sforza anche ora, niente lacrime, ma vedo gli occhi che si gonfiano mentre fissa quasi immobile quello che resta del suo cantiere devastato dall’alluvione proprio mentre lui era sotto il programma di protezione testimoni, sotto falso nome, proprio nel periodo in cui lo Stato gli aveva promesso “ci prenderemo cura noi della sua attività”.
Ci saranno una ventina di imbarcazioni, la gran parte sono inutilizzabili, abbandonate dai clienti quando Gianni, dopo 4 anni da infiltrato nel più grande cartello del narcotraffico spagnolo, era scomparso nel nulla. Ma è quando guarda la barca dell’ultimo vero cliente che si commuove. Un traghetto, un lavoro di manutenzione da 20mila euro, ossigeno di questi tempi in cui, abbandonato dallo Stato, Gianni non ha i soldi neanche per mettere il pane a tavola e sfamare i suoi 6 figli (2 suoi, 4 della seconda moglie). Sarebbe bello lavorarci, ripartire, tornare a lavorare, ma per farlo servono i materiali, 10mila euro. Una montagna insormontabile.
Pochi anni fa non sarebbero mai stati un problema, quando “Giannino” era il meccanico piû richiesto d’Italia, capace di rendere una saetta qualunque imbarcazione e la sua azienda dava lavoro a diverse famiglie. Proprio la sua bravura aveva attirato l’attenzione del clan Di Lauro, la camorra che stava facendo affari con gli spagnoli, col Presidente, il più giovane narcos europeo di sempre. Cercavano gommoni veloci, capaci di domare l’oceano e portare sulle coste iberiche tonnellate di coca. In quella commessa la polizia vide la possibilità di infiltrare un uomo. Questo divenne Gianni: un civile infiltrato. 4 anni col boss, il carcere in Francia pur di rendere credibile la copertura, un matrimonio in frantumi, la paura di essere smascherato e fatto a pezzi insieme alla sua famiglia, che coi narcos mangiava tutti i giorni. Quando scattano le manette e le polizie spagnola e italiana effettuano il più grande sequestro di sempre, Gianni pensa sia finita, invece è appena iniziata. Quasi due anni sotto falso nome, senza protezione, senza soldi, senza poter lavorare, vagando di citta’ in citta’. Quello Stato che gli aveva promesso di proteggerli, ha trasformato la loro vita in una lenta agonia.
Gianni e i suoi, esausti, firmano per uscire dal programma, si accontentano di una liquidazione di 50mila euro, convinti di poter tornare al loro vecchio lavoro nel cantiere di cui il Viminale ha assicurato si sarebbe preso cura. Credono di tornare alla vecchia vita, anche se sotto la minaccia di una morte orrenda per mano dei narcos.
Ma quando tornano a casa Gianni e sua moglie non trovano nulla, o quasi. Il cantiere, abbandonato, e’ stato devastato dall’alluvione e al Ministero non se ne sono neanche accorti. Le pendenze fiscali, che dovevano essere “congelate” con un’apposita legge, sono enormi: mancati gaudagni, mancato versamento dei contributi Inps, nessuno si è preoccupato di avvisare gli enti creditori della situazione: vogliono decine di migliaia di euro.
La fine e’ proprio qui, nei suoi occhi umidi, dopo aver venduto l’ultima gru per pagare le spese correnti "Senza quella non possiamo praticamente lavorare… ci hanno staccato il gas, cuciniamo con le bombole…ma io ho fatto il mio dovere! Ti rendi conto?".
Qualunque tentativo di trovare una soluzione e’ naufragato: l’ultima richiesta di erogazione straordinaria il Viminale l’ha bocciata il 9 gennaio, 4 giorni prima della puntata di Presa Diretta in cui Gianni ha raccontato la sua storia per la prima volta. Dopo le sue lamentele sulle scarse misure di sicurezza per la tutela della sua famiglia, i carabinieri per un mese si presentavano al suo cancello 4/5 volte al giorno e, per sottolineare la rpesenza, citofonavano e pretendevano di vedere i suoi documenti. Anche alle 3 di notte.
L’ironia sta nel fatto che 10mila euro una banca potrebbe anche darli a Gianni, se solo non ci fossero quei debiti che non e’ stato lui a fare, ma il Viminale, dimenticandosi di bloccare qualunque pendenza per la sua societa’ mentre lui era sotto protezione, un protocollo previsto dalla legge sui testimoni.
"Se continua cosi la prossima settimana dichiaro il fallimento della societa’". Intanto lo sguardo va verso la barca coperta da un telone, un ricordo dei giorni da infiltrato: uno dei mezzi progettati per i narcos, serviva a caricare e scaricare droga, quando dalle mani di Gianni passavano centinaia di migliaia di euro, senza che neanche uno restasse nelle mani di Gianni "La valigetta neanche la aprivo, cosi come era la consegnavo alla polizia! Per anni la gente del posto ha creduto che io fossi realmente un narcotrafficante… io invece facevo il mio dovere, pensavo che sarei diventato un eroe per questo, invece mio padre e’ morto mentre ero ancora sotto copertura, convinto che suo figlio fosse un malvivente!".
Ogni volta che il telefono squilla, la speranza e’ che sia il Viminale, con un aiuto. Invece ormai chiama solo lui, Ignazio Cutro’, l’unico testimone a passarsela peggio di Gianni, visto che i soldi per il pane non li ha gia’ da qualche mese. La scorsa settimana ha potuto fare la spesa solo perche’ i soldi glieli hanno dati i poliziotti della sua scorta: una colletta da 300 euro.

Video: Gianfranco Franciosi - Testimoni di giustizia - Presa Diretta 20 gennaio 2014

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