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In un’intervista del ‘92 il magistrato parla dei suoi timori
di Mario Portanova - 15 luglio 2012
Le leggi sembrano fatte apposta per difficultare i processi di mafia”. Lo dice Paolo Borsellino davanti alle telecamere del Tg1 il primo giugno 1992, nove giorni dopo la morte di Giovanni Falcone e meno di due mesi prima della strage di via D'Amelio. Il giudice auspica che finalmente lo Stato si svegli. In direzione esattamente opposta a quella che poi, molti anni più tardi, passerà alla cronaca come “la trattativa”. “Mi impongo di credere che la morte di Falcone sia un fatto così dirompente e drammatico che, bandendo ogni sofisma, ogni ipocrisia e ogni compromesso, il potere politico abbia la forza di prendere decisioni ordinarie, ma drastiche, perché i magistrati possano lavorare”.

PERCHÉ troppo grande è il divario “tra quello che sappiamo della mafia e quello che riusciamo a dimostrare in tribunale”, tanto che a volte viene voglia “di alzare le mani”, di arrendersi. Borsellino scandisce le parole, con il suo abituale tono pacato, e si concede qualche sorriso ironico. Di quel filmato girato dal corrispondente Lucio Galluzzo e lungo una cinquantina di minuti, la Rai all'epoca utilizzò solo pochi spezzoni. Una delle ultime testimonianze dell'eroe antimafia finì poi dimenticata in archivio. Fino a oggi. A riproporla è il documentario L'uomo che sapeva di dover morire, realizzato da Maria Grazia Mazzola, (stasera 23,25) nello Speciale Tg1 condotto da Monica Maggioni (alcuni spezzoni saranno pubblicati sul sito fattoquotidiano.it  ). Partendo dall'intervista ritrovata, l'inchiesta raccoglie numerose testimonianze dirette sugli ultimi giorni di vita del giudice. Compresa quella di Gioacchino Natoli, oggi presidente del Tribunale di Marsala. Che conferma uno degli episodi più oscuri: l'incontro di Borsellino con Bruno Contrada, il numero tre del Sisde poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, nell'ufficio dell'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino. Il primo luglio 1992, Borsellino è a Roma per interrogare in gran segreto Gaspare Mutolo, che ha appena cominciato a collaborare con la giustizia e ha preannunciato rivelazioni sullo stesso Contrada. Durante l'incontro con il pentito riceve una telefonata dal Viminale: un invito dal ministro, che vorrebbe salutarlo. Nell'anticamera, Borsellino si ritrova solo, perché nello studio di Mancino è entrato il suo collega Vittorio Aliquò. È a quel punto che arriva Contrada, che gli fa una battuta sulla collaborazione di Mutolo. Nel documentario Natoli ricorda di aver ricevuto la sera stessa la telefonata di un Borsellino preoccupatissimo, che non si capacitava di come Contrada fosse venuto a conoscenza della collaborazione di Mutolo e dell'interrogatorio. “Non siamo al sicuro”, ripeteva il magistrato che 18 giorni dopo sarebbe saltato in aria in via D'Amelio. Una conferma ancora più drammatica del suo stato d'animo arriva dalla moglie Agnese: “Quella sera Paolo mi disse: ‘Ho respirato aria di morte’”. E ancora: “I miei clienti non sono più quelli di una volta. Avrò a che fare con nuovi clienti”.
 

NELL'INTERVISTA, Borsellino ricorda quando nel 1985 lui, Falcone e i loro familiari furono di fatto “rinchiusi” all'Asinara, per scrivere l'ordinanza del maxi-processo di Palermo al riparo da ritorsioni mafiose. Un episodio che segnò la vita dei figli del magistrato . E l'ennesimo esempio di uno Stato mai del tutto determinato nella lotta contro Cosa Nostra, che in quegli anni uccideva giudici, politici, poliziotti. I giudici che avrebbero inferto il primo vero colpo alla Cupola non avevano a disposizione neppure una fotocopiatrice. Nonostante le ripetute richieste, arrivò beffardamente solo alla vigilia del dibattimento. “Ho costruito il documentario come se Borsellino fosse ancora vivo, lì ad ascoltare quello che raccontano gli intervistati”, spiega l'autrice Maria Grazia Mazzola. “Dopo Capaci lui diventa il terminale di informazioni delicatissime. Ed è come se, consapevole di non avere tanto tempo, abbia lasciato delle tracce sparse, che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Traspare fortissima la suggestione della sua solitudine. Da giornalista mi chiedo: perché lo Stato non lo ha protetto come aveva fatto nel 1985?”.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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