Chiese nuovo incarico ma richiesta fu respinta, ucciso nel 1988
Il magistrato di Canicattì, Antonino Saetta, annunciò con oltre un anno di anticipo che la sua nomina a presidente della terza sezione penale di Palermo poteva essere letale. Chiese un nuovo incarico ma la sua richiesta non venne ascoltata e anzi respinta. Lo scrive a sud europa, la rivista del Centro Pio La Torre, che pubblica le lettere inviate da Saetta per spiegare i motivi dei suoi timori. Sono due le missive che Saetta scrisse all'allora presidente della Corte di Appello di Palermo, la prima viene protocollata il 6 giugno 1987 e respinta, la seconda pochi giorni dopo. Il 6 luglio la nomina viene confermata al consiglio giudiziario presso la Corte di Appello di Palermo. Il 14 ottobre del 1987 il Consiglio Superiore della Magistratura ratifica l'atto. Fu assassinato insieme a suo figlio Stefano, dalla mafia il 25 settembre 1988. Saetta da presidente della prima sezione della Corte d'Assise d'Appello di Palermo si occupò di importanti processi di mafia, in particolare presiedette il processo relativo alla uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, che vedeva imputati i capi emergenti Vincenzo Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia. Pochi mesi dopo la conclusione del processo, e pochi giorni dopo il deposito della motivazione della sentenza che aveva condannato all'ergastolo gli imputati, Saetta fu assassinato, insieme con il figlio Stefano. Stava facendo ritorno a Palermo, dopo aver trascorso il fine settimana a Canicattì ed avere assistito al battesimo di un nipotino. Era domenica e viaggiava con il figlio sullo scorrimento veloce che da Canicattì va a Caltanissetta sulla sua Lancia Prisma. I killer entrarono in azione all'altezza del viadotto Giulfo e affiancarono l'auto del giudice: in totale furono sparati 47 colpi. Nel 1996 sono stati condannati all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Caltanissetta i capimafia Salvatore Riina e Francesco Madonia come mandanti, e il killer Pietro Ribisi come esecutore materiale; gli altri due esecutori, Michele Montagna e Nicola Brancato, e il basista dell'agguato, il boss di Canicattì Giuseppe Di Caro, non sono più processabili perché tutti morti. L'assassinio era un "favore" delle cosche agrigentine ai capimafia palermitani Riina e Madonia.