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il testimoneLe memorie postume del magistrato scomparso nel marzo 2017
di Giovanni Bianconi
Fu amico del pm Giacomo Ciaccio Montalto, assassinato dalla mafia nel 1983

Ci fu un magistrato che all’inizio degli anni Ottanta indagava in solitudine sulla mafia nella provincia di Trapani, e aveva smascherato un suo collega, pubblico ministero della porta accanto, amico dei boss. Anche per questo, per la scoperta che rischiava di rompere consolidati e fruttuosi equilibri criminal-giudiziari, fu ammazzato dai sicari di Cosa nostra. Si chiamava Giacomo Ciaccio Montalto, i killer lo abbatterono la sera del 24 gennaio 1983 mentre rincasava a Valderice, a bordo della sua Volkswagen Golf, a colpi di mitraglietta e calibro 38. Il cadavere rimase nell’auto tutta la notte, con lo sportello semiaperto, fino alle 7 di mattina, quando qualcuno si degnò di lanciare l’allarme. In quella contrada sorda e muta, nessuno aveva visto né sentito niente.

Qualche giorno prima, a Palermo, in un convegno sulla legislazione antimafia dopo l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il ministro della Giustizia democristiano Clelio Darida aveva illustrato il suo personale punto di vista: «Credere che la mafia si possa debellare del tutto è forse un’illusione; tutt’al più si può riportare entro limiti fisiologici».

Senza tenere conto dei limiti autoimposti dal ministro, un altro pubblico ministero, a Caltanissetta, cominciò a indagare sulla morte di Ciaccio Montalto. E mentre i mafiosi cominciarono a eliminare gli indiziati dell’esecuzione materiale del delitto, mettendoli a tacere per sempre, quel magistrato scoprì le complicità del collega di Ciaccio Montalto, i suoi rapporti con gli «uomini d’onore», la collusione al palazzo di giustizia. Risultato: gli tolsero il processo. Su istanza della toga finita sotto inchiesta, la Cassazione spostò il procedimento da Caltanissetta a Messina, per «legittimo sospetto» sulla serenità dell’ambiente in cui venivano condotte le indagini.

Una decisione clamorosa, firmata dalla sezione presieduta dal giudice Corrado Carnevale, già noto come «ammazzasentenze» per i verdetti che accoglievano i ricorsi di mafiosi e terroristi.

Il magistrato scippato non si arrese, e pensò di presentare un esposto per avviare l’azione disciplinare contro Carnevale; s’interessò presso il ministero della Giustizia, ma gli fu risposto che era meglio lasciar stare: Carnevale godeva di protezioni governative insuperabili, nella persona dell’ex presidente del Consiglio (all’epoca ministro degli Esteri) Giulio Andreotti.

Di tutto questo fu testimone un altro magistrato, Mario Almerighi, autore di importanti inchieste che hanno segnato la storia giudiziaria del Paese: dal primo scandalo dei petroli, con annesse tangenti ai politici, all’omicidio del banchiere Roberto Calvi. Almerighi è morto nel marzo scorso, all’età di 78 anni; autore di diversi libri sui misteri d’Italia ancora irrisolti, prima di andarsene ha fatto in tempo a completare l’ultimo, che s’intitola appunto Il testimone. Memorie di un magistrato in prima linea (La nave di Teseo), nel quale ripercorre la storia dell’omicidio di Ciaccio Montalto e il seguito. Altrettanto inquietante.

Amico del pubblico ministero assassinato (come di Giovanni Falcone), Almerighi è stato protagonista della vita associativa e correntizia delle toghe (prima di tirarsene fuori polemicamente nel 1998) e componente del Consiglio superiore della magistratura. Fu lui, quando il collega che indagava sulla morte di Ciaccio Montalto scoprì gli episodi di collusione nel Palazzo di giustizia, a caldeggiare l’esposto nei confronti di Carnevale, e fu lui - racconta ora nel libro - a sentirsi dire dall’allora capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Virginio Rognoni, che non si poteva esercitare alcuna azione disciplinare, per via del muro eretto da Andreotti a sua difesa.

Quando poi l’ex presidente del Consiglio e senatore a vita fu messo sotto processo per mafia, e alcuni pentiti parlarono dei suoi rapporti con Carnevale (a sua volta processato e infine assolto per concorso in associazione mafiosa), Almerighi decise di presentarsi ai pm di Palermo per raccontare la storia di cui era stato protagonista. Lo sentì come un dovere.

«Scelgo di testimoniare - scrive - perché ritengo che l’illegittima interferenza di Andreotti su Rognoni in difesa del giudice Carnevale sia rilevante e denoti la sussistenza, ancora una volta, di una trattativa tra certa politica, certa magistratura e Cosa nostra; una trattativa che in questo caso si era attivata in difesa di un giudice corrotto da esponenti mafiosi, il pm della porta accanto a quella del povero Ciaccio Montalto». La sua versione non fu confermata né dall’ex capo di gabinetto né da Rognoni, tra «non ricordo» e possibili fraintendimenti. A processo concluso (con assoluzione e prescrizione), Andreotti si scagliò su giornali e tv contro Almerighi, definito testimone «falso» e responsabile di una «infamia». Il giudice lo denunciò, il senatore provò a coprirsi con l’immunità parlamentare, ma fu sconfessato dalla Corte costituzionale, infine processato e condannato definitivamente nel 2010, per diffamazione nei confronti del testimone.

Una storia cominciata quasi trent’anni prima, con l’omicidio di un pm antimafia, e conclusa con la condanna dell’uomo politico forse più rappresentativo della Prima Repubblica, reo di avere offeso un magistrato. Il quale decise di non tacere - offrendo «un insegnamento di immenso valore morale, civile e politico», come scrive Furio Colombo nella prefazione al volume - per non fare come i cittadini di Valderice che avevano lasciato il suo amico Ciaccio Montalto, crivellato di proiettili, raggomitolato nell’auto per un’intera notte.

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