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caravaggio frame videodi Piero Melati
Al teatro Massimo lo spettacolo con il testo di Bolzoni e la musica di Sollima ripropone il tema del giornalismo in teatro: un incontro che dona un tocco di leggerezza
Se andiamo lontano, potremmo rifarci a Beppe Grillo, che sull’attualità trasportata in palcoscenico (e distorta in comicità) ha costruito una carriera. Oppure a Marco Travaglio, che spesso ha letto verbali giudiziari appollaiato sulle travi di un teatro. O ancora, potremmo partire dagli Stati Uniti, dove tiene banco una kermesse di «giornalismo investigativo » su una strage di vigili del fuoco a Kansas city. Oppure dal Continente, dove sono diventati regolari i tour teatrali di giornalisti come Federico Rampini o Federico Buffa.
Il matrimonio tra scena e cronaca sta diventando abituale. Ma per parlare del leggendario scippo palermitano della Natività del Caravaggio, che arriva al teatro Massimo col testo di Attilio Bolzoni, preferiamo prenderla molto da vicino.
La Palermo dei vivi ci riprova. La targa recentemente dedicata a Enzo ed Elvira Sellerio, dopo i decenni dedicati quasi esclusivamente alla memoria di martiri ed eroi, ha acceso una luce su quel che di positivo è rimasto del periodo buio e doloroso della guerra civile siciliana degli anni Ottanta. La figura di Letizia Battaglia è un altro di questi rari ma profondi respiri. Ora anche il clamoroso e mai risolto furto della Natività, capolavoro del Caravaggio, una volta trasportato in teatro, può assumere quella levità con la quale i grandi drammaturghi siciliani (da Pirandello a Camilleri) hanno saputo trattare anche la materia più pesante, secondo il comandamento scespiriano, alleviandola in base all’insegnamento che Italo Calvino lasciò in eredità nelle sue Lezioni Americane.
Dietro il sipario, la cronaca. Davvero è possibile, su un palco, sgravare il peso dei fatti, senza che se ne perda la consistenza? Intanto, va detto che la Natività del Caravaggio è il Matteo Messina Denaro dell’arte di ogni tempo. È stata, per decenni, il pezzo più ricercato del pianeta da parte del Nucleo tutela del patrimonio artistico, la squadra speciale dei carabinieri specializzata nella caccia ai tesori perduti.
Venne trafugata la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo. Il suo valore si aggirerebbe intorno ai venti milioni di dollari. Tuttora è inserita nella lista dei dieci capolavori più ricercati dalle polizie di tutto il mondo. La speranza di ritrovarla è talmente perduta che di recente, con cerimonia presenziata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è stata sostituita da una copia. Ben fatta, ma pur sempre una copia. Sul destino della tela si sono intrecciate leggende: bruciata in un incendio, divorata dai topi e dall’umidità, data in permuta per una grossa partita di droga, esposta al muro durante i summit della Commissione di Cosa Nostra, usata come scendiletto dai boss.
Bene. E allora come può essere raccontata questa storia? Sono stati scritti molti libri, vergati decine di articoli, stampate centinaia di inchieste. Basta? Non basta. La storia di Caravaggio resta significativa, ben più che inflazionata. Consente di gettare uno sguardo obliquo e trasversale su Palermo. Perché oggi il teatro può renderla (quasi) inedita? Occorre rovesciare un luogo comune, Quando diciamo «verba volant, scripta manent » di solito intendiamo che la parola scritta resta (incisa sulla carta, come fosse pietra) mentre quella pronunciata è parola volatile, volubile, senza peso.
Ma proviamo a invertire l’assunto: la parola scritta è pesante, grave, sofferta; quella esclusivamente pronunciata invece vola, sospinta (nel caso del teatro) dalle espressioni, dalla gestualità, dai corpi degli attori, dalla musica. È una magia. Come ogni messa in scena.
Palermo ha in questo un patrimonio unico. Per limitarsi ad alcuni nomi, ha dentro il suo bagaglio Franco Scaldati, l’eredità della scuola di Michele Perriera, Emma Dante e, scendendo per i rami, la tradizione popolare dei Travaglini di Li Bassi e Burruano, Zappalà, i pupi di Cuticchio. Va bene, direte, ma cosa c’entra il giornalismo? C’entra, eccome. In questa tradizione «anomala » ci stanno perlomeno due nomi: Salvo Licata e Giuliana Saladino, cronisti prima de L’Ora e poi del Giornale di Sicilia. Il primo ha diviso il suo destino tra cronaca nera, musica e teatro, la seconda ha fatto del giornalismo e poi dei suoi romanzi-inchiesta autentiche opere di drammaturgia. Hanno unito mondi differenti (come presentando i loro libri hanno scritto altri due palermitani, Mario Genco e Piero Violante) e grazie a questa alchimia tra elementi considerati differenti, ci hanno fornito una originalissima e irripetibile visione della Sicilia.
Si badi bene, loro (come altri che colpevolmente dimentichiamo) non hanno negato proprio nulla. Non hanno fatto sconti alla realtà. Nelle produzioni di Licata e Saladino siamo circondati dalla miseria, dalla tragedia, dal dolore. Ma c’è, nella capacità di narrare, qualcosa che alleggerisce e che riscatta.
Dunque, proviamoci di nuovo, a unire pianeti differenti, anche sopra un palcoscenico, anche per farci giornalismo. Andiamo dove la parola perde peso e vola, per inventare nuovi linguaggi che illuminino le nostre cose. Che se invece ci arrendiamo, perderemmo la partita a scacchi con la morte.


“Sarà un mosaico di suoni, immagini e parole”
Parlano i protagonisti. Le fotografie di Letizia Battaglia diventano un film sulla città
di Laura Nobile
C’è una tela sottratta alla sua bellezza, e una città oltraggiata nella sua grazia, al centro de “Il Caravaggio rubato”, il nuovo “oratorio giornalistico” di Giovanni Sollima, Letizia Battaglia e Attilio Bolzoni, che stasera alle 20,30 debutta in prima esecuzione assoluta al teatro Massimo, che l’ha commissionato in coproduzione col Bellini di Catania.
Trafugato dall’oratorio di San Lorenzo nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969, “La natività” di Caravaggio non è mai più stata ritrovata ed è alla temperie culturale e mafiosa della Palermo di quegli anni che è dedicata l’opera. La regista Cecilia Ligorio ha composto un puzzle articolato per suggestioni con le musiche del compositore e violoncellista Giovanni Sollima (che le eseguirà e dirigerà) e il testo del giornalista Attilio Bolzoni (che lo legge in scena) sulla città che viveva i suoi momenti più bui, mentre ha affidato le foto di Letizia Battaglia, che mai aveva fotografato il dipinto, ai video di Igor Renzetti. Al centro della drammaturgia ci sono loro, le fotografie, l’immaginario di una Palermo che scorre come un film impaginando il rocambolesco furto del dipinto. «Le foto sono bellissime, così manipolate, irriconoscibili - racconta sorridendo Letizia Battaglia, che oggi festeggia 81 anni.
«La tela è il punto di partenza in cui suoni e immagini cercano il quadro rubato - racconta la Ligorio - in una città squassata per vent’anni da fatti di morte». Così Bolzoni ha dovuto cercare dentro se stesso: «Sono partito dalla considerazione - spiega - che questa è una città che dagli anni Settanta ai Novanta ha intrapreso uno dei percorsi più dolorosi e difficili che l’hanno portata a cambiare più di qualsiasi altro luogo nel nostro Paese, pur tra mille trasformismi, ma ripartendo dalle sue ferite». Sollima, dal canto suo commenta: «La mia non è una partitura narrativa o una colonna sonora, non ci sono riferimenti specifici al quadro assente, ma suggestioni, strati diversi e una musica trasparente come uno specchio d’acqua». Si replica anche domani.

Tratto da: La Repubblica - Palermo del 5 marzo 2016

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