Intervista
di Mario Di Caro
“Alla fine Palermo ingoia tutto”, dice la battuta più amara del film “Era d’estate”, dedicata “all’esilio” all’Asinara di Falcone e Borsellino nel 1985. Quella battuta la pronuncia Beppe Fiorello, interprete di Paolo Borsellino, il suo ennesimo ruolo di personaggio realmente esistito. “Probabilmente quella frase Borsellino l’ha pensata, ma è vero che in quel momento Palermo rappresentava l’intero Paese, ed è vero che l’Italia ingoia tutto e va avanti portandosi dietro i suoi scheletri. Oggi Palermo è una città in crescita, eppure alla Sicilia è rimasta l’impronta di scuola per avere saputo esportare il malaffare in altri territori del Paese. Ma sono certo che oggi Pippo Fava non direbbe più che “in Sicilia siamo tutti mafiosi”. Oggi c’è una forte presa di coscienza da parte dei giovani che dicono siamo qui e vogliamo contare”. L’attore parla anche dei suoi mille ruoli biografici, della sua tecnica per affrontarli e dei sontuosi pranzi di famiglia a casa Fiorello.
Quello di Paolo Borsellino è l’ennesimo ruolo “vero” per l’attore catanese specializzato in biografie cine-televisive, da Modugno a Valentino Mazzola, da Salvo D’Acquisto a Joe Petrosino. Ma stavolta è diverso, per l’intreccio di memorie dolorose che riemerge dalla sua Sicilia.
«Quando Borsellino e Falcone furono uccisi ero un ragazzo di vent’anni che aveva perso da poco il padre e per me fu come perdere altri due padri - dice Fiorello, costretto ad annullare gli spettacoli al teatro Al Massimo per una laringite - Confesso che la mia reazione fu di smarrimento, pensavo che fosse finito tutto come ebbe a dire Antonino Caponnetto. Sentivo un dolore pesante».
Oggi invececosa resta di quel 1992?
«A distanza di tanti anni penso che fu un grande momento di passaggio, di grande consapevolezza del nostro essere siciliani, un sacrificio che giova ancora al futuro dei ragazzi. Ogni parola, ogni gesto, ogni missione professionale di Falcone e Borsellino erano proiettati sul futuro dei ragazzi: loro ripetevano sempre “non vi rassegnate, non dimenticate, nominate la parola mafia perché la mafia si nutre dei silenzi”. E quindi oggi provo un sentimento di gratitudine verso il loro sacrificio».
C’è una battuta molto amara che pronuncia nel film, riferita all’omicidio Cassarà: “Alla fine Palermo ingoia tutto”. Un’accusa alla capacità di lasciarsi scivolare addosso qualunque orrore…
«Quella è una battuta inventata dagli autori ma io credo che in qualche modo Borsellino l’abbia pensata più volte nella sua vita. In quella frase c’è la metafora di una città che in quel momento era uno specchio del Paese intero: Palermo in quel momento era l’Italia, rappresentava quei due magistrati e gli altri poliziotti che si battevano contro la mafia. Questo Paese ingoia sempre tutto e va avanti portandosi appresso dei fardelli e degli scheletri enormi».
Quindi è una frase ancora attuale?
«Lo è meno per Palermo che è una città in crescita e in evoluzione, forse riguarda di più altre parti dell’Italia. Palermo oggi fa meno il ruolo del cassiere ma alla Sicilia purtroppo rimane un primato, un’impronta di scuola del sapere innestare il malaffare dentro la politica e di questa maestria ne ha fatto tesoro il territorio intero del Paese. Abbiamo esportato questa atavica capacità mafiosa. Una volta Pippo Fava pronunciò una frase potentissima: “I siciliani sono tutti mafiosi”. Non si riferiva alle persone, ovviamente, ma a una forma mentis siciliana che molto spesso fa rassegnare a un certo tipo di tessuto sociopolitico. Questo accadeva negli anni Settanta, Ottanta e fino ai Novanta, oggi sento che le cose stanno cambiando».
Ecco, che eco le arriva della Sicilia di oggi?
«Arriva un’eco in base alla quale Pippo Fava potrebbe smentire quella sua affermazione perché oggi c’è una fortissima esposizione sociale da parte dei giovani che hanno preso in mano la situazione e che hanno detto “Qua bisogna sapere che noi ci siano, esistiamo e che il malaffare ormai è sotto controllo”. Quindi c’è una forza, una volontà da parte dei ragazzi di tutte le città siciliane non assistita, però, dalla politica e dalla burocrazia. Se un giovane ha un’idea, vuole fare impresa, vuole tentare una start up trova un muro. Ed è una forma di mafia anche questa».
Parliamo del film: che Borsellino restituisce sullo schermo?
«La regista ci ha chiesto di evitare le somiglianze perché poi ci avrebbero fatto arrampicare sugli specchi. Io posso dire che dopo la proiezione al Festival di Roma ho ricevuto dai figli di Borsellino delle considerazioni molto toccanti perché hanno colto l’essenza del mio lavoro d’attore. “Hai colto certe piccole sfumature di papà e sei stato te stesso, non hai fatto sforzi per ricordarcelo pur non avendo la sua voce e la sua inflessione palermitana molto marcata”».
Prima di lei il ruolo di Paolo Borsellino è stato interpretato da Giancarlo Giannini, Giorgio Tirabassi, Andy Luotto. Oggi, al cinema e in televisione, i ruoli Falcone e Borsellino hanno assunto il valore dei ruoli scespiriani in teatro: sono, cioè, diventati, tappe di un percorso, quasi un riconoscimento. È d’accordo?
«Trovo molto bella quest’osservazione. Certamente, è così: sono dei personaggi che possono entrare a far parte di un percorso attoriale come dei classici. Tra dieci anni ci sarà un attore giovane che farà un’altra interpretazione di Borsellino o di Falcone raccontando un’altra storia».
Il fatto di interpretare spesso personaggi realmente esistiti condiziona in qualche modo il suo approccio di attore?
«Quando si tratta di biografie io applico un metodo che mi è tornato utile. Per il quaranta per cento cerco di sapere quanto più possibile sul personaggio, per il sessanta per cento lavoro di immaginazione. Io provo a immaginare come camminava Modugno, come sorrideva Borsellino, che Valentino Mazzola parlasse poco. Ecco, in quell’occasione il figlio di Mazzola mi disse che ero riuscito a immaginare i silenzi di suo padre».
Una curiosità: ma un pranzo della domenica a casa Fiorello è uno spettacolo di varietà?
«Forse trent’anni fa sì, quando a Letojanni, dalla nonna, c’erano queste grandi tavolate assieme agli zii venuti dall’Australia, i cugini, si raccontavano le cose buffe del paese, si rideva, si cantava. Oggi le cose sono cambiate, perché viviamo a Roma, ma non siamo una famiglia speciale da pubblicità dei biscotti. Anche noi Fiorello abbiamo i nostri scazzi e le nostre diversità di vedute».
Tratto da: La Repubblica del 20 dicembre 2015
In foto: Beppe Fiorello, a destra, nei panni di Paolo Borsellino
Beppe Fiorello: ''Il mio ’92 è stato terribile ora do il sorriso a Borsellino''
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