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Nella clindellutri-ospedale-beirutica Al-Hayat di Beirut dove si trova agli "arresti ospedalieri" dopo la condanna: "Non sono fuggito, ero un libero cittadino"
di Francesco Viviano - 11 maggio 2014
Beirut. Se mi estradano? Vorrei essere affidato ai servizi sociali, come il Presidente Silvio Berlusconi". Sdraiato sul lettino dell'ospedale Al Hayat a sud di Beirut dove si trova agli arresti dal 12 aprile scorso, l'ex senatore Marcello Dell'Utri è sorpreso della visita inaspettata e non annunciata del giornalista di Repubblica. Che si affaccia sulla soglia della sua stanza, la 410, al quarto piano del reparto riservato ai detenuti.

È sorvegliato da tre militari, uno con la pistola in pugno e il dito sul grilletto e gli altri con i mitra che lo sorvegliano 24 ore su 24: stazionano nel salottino con un divano e due poltrone che comunica con la sua stanza con la porta sempre aperta.

Chiediamo al capo della pattuglia se è possibile "salutare" quel malato "speciale", i militari sembrano stupiti e quando gli mostriamo il passaporto con la data di nascita di Palermo, stessa città dov'è nato Dell'Utri, poi si tranquillizzano e chiedono: "Marcello (così lo chiama il militare che evidentemente ha ormai familiarizzato con il detenuto "eccellente", ndr) c'è qui un signore che dice di conoscerti, possiamo farlo entrare?".

L'ex senatore alza la testa dal cuscino del suo lettino, guarda l'intruso e risponde: "Ah è sempre lei, è la seconda volta che riesce ad entrare, ma non l'avevano arrestato?". Così ci troviamo faccia a faccia in questa piccola stanza d'ospedale, alle pareti due quadri che descrivono paesaggi di mare ("Li ho fatti io durante la detenzione", dice lui sorridendo), un comodino alla destra del letto dove sono appoggiati libri (I Promessi Sposi, La Divina Commedia e un volume su Canova") e il giornale libanese in lingua francese, L'Orient-Le Jour.

Fa caldo qui dentro e Dell'Utri indossa una t-shirt bianca sopra i calzoncini neri. Il lenzuolo è arrotolato ai piedi del letto. "Questo sì che è un giornale serio, non come quelli italiani che scrivono 'minchiate'", dice prendendo il mano il quotidiano libanese.

Allora, per evitare di scrivere "minchiate" come le chiama lei, perché non ci dice quello che è veramente successo? Perché è venuto qui in Libano poco prima della prevista sentenza della Cassazione che l'ha condannato a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa? Qual è la sua verità? Voleva sfuggire alla giustizia italiana?

Dell'Utri - con accanto la figlia più piccola, Margherita che gli stringe la mano confortandolo - abbassa il volume della televisione che sta trasmettendo incontri di calcio dei Paesi arabi, e risponde. "Io sono un prigioniero politico perché quella di venerdì è stata una "sentenza politica", una sentenza già scritta di un processo che mi ha perseguitato per oltre 20 anni soltanto perché ho fatto assumere Vittorio Mangano come stalliere nella villa di Arcore del Presidente Silvio Berlusconi. Una persona per me davvero speciale anche se aveva dei precedenti penali: per me Mangano era un amico e basta".

Sarà una "sentenza politica" ma tre processi e il giudizio della Cassazione, dicono il contrario. E poi, perché è andato via dall'Italia ed è venuto in Libano alcuni giorni prima della prevista sentenza di Cassazione?
"Ero un libero cittadino, avevo un regolare passaporto e potevo andare dove volevo. Ho scelto il Libano perché qui ci sono medici bravissimi. E sono partito in compagnia di mio figlio Marco. Non sono fuggito, come avete scritto".

Ma perché proprio pochi giorni prima della sentenza? Questa coincidenza, secondo gli inquirenti italiani, è molto "sospetta". Dicono che lei qui ha amici "importanti", politici, imprenditori, conoscenze influenti che potrebbero aiutarla a rimanere in Libano...
"Ma quali aiuti, sono venuto qui senza nascondermi e da quando sono a Beirut ho sempre usato il mio cellulare che probabilmente poteva essere intercettato. Io sono partito con il mio nome e cognome, non ho usato altri mezzi".

Quindi sono tutte favole quelle che si dicono, che lei è "intimo" amico dell'ex presidente del Libano, Amin Gemayel, dell'imprenditore calabrese che vive qui, Vincenzo Speziali, quello che voleva aiutare anche l'ex deputato del suo stesso partito, Matacena a raggiungere Beirut?
"Guardi, io so chi è Gemayel, certo che lo conosco, ma non l'ho mai incontrato durante la mia permanenza in Libano. Non c'era motivo: non ho avuto alcuna "protezione", né "assistenza", sono venuto qui da solo e basta".

E Vincenzo Speziali, la persona che è indagata nel caso Matacena? Neanche lui conosce? non lo ha aiutato a trasferirsi in Libano? Gli investigatori italiani hanno rilevato dai tabulati telefonici suoi e di Speziale, che vi siete sentiti numerose volte, prima e dopo il suo viaggio in Libano? Sono "minchiate", come le chiama lei, anche queste?
"Vincenzo Speziali? Il nipote omonimo del mio ex collega di partito? Certo che lo conosco, l'ho incontrato diverse volte perché voleva candidarsi nel Pdl e quindi l'ho incontrato, ma è ormai da tempo che non lo vedo e non lo sento. Non so da dove spuntino questi tabulati".

I suoi avvocati italiani e libanesi si appelleranno alla Corte di Giustizia Europea contro questa sentenza e faranno di tutto, hanno detto, per non farla estradare in Italia.
"Guardi io sono qui in ospedale e le posso assicurare che, come si dice a Palermo, "meglio il carcere che una tinta malattia" (Meglio la galera che una brutta malattia, ndr) e se sarò estradato in Italia vorrei fare quello che fa il Presidente Berlusconi, essere affidato ai servizi sociali, ma io sono condannato per mafia e non posso assistere gli anziani come sta facendo lui. Posso solo assistere, se me lo permetteranno, i carcerati".

La conversazione viene interrotta, i militari che lo sorvegliano dicono "stop". Lo salutiamo mentre la figlia gli stringe ancora la mano: "Mio padre è quello che vede - dice Margherita Dell'Utri - non è un mafioso, è stato ed è un grande padre".

Tratto da: repubblica.it

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